Zanzibar svolse un ruolo di primaria importanza nella storia dello schiavismo islamico, la cui estensione poteva ben dirsi superiore rispetto alla tratta europea-atlantica. Dall’inizio del Cinquecento fino al 1698 l’arcipelago al largo della costa orientale africana rimase in mani portoghesi. Tuttavia, poiché godeva una vantaggiosissima posizione geografica nell’Oceano Indiano, Zanzibar attirò presto l’attenzione del Sultano dell’Oman. Quest’ultimo era a capo di un vasto impero coloniale, che per interessi economici e ragioni di potenza rivaleggiò con quello inglese e portoghese per diversi secoli. La conquista del suddetto territorio costituì la resa dei portoghesi, oltre che la forzata cessione dell’ultimo forte europeo. Ma cosa fece di Zanzibar il più importante mercato di schiavi dell’Africa orientale?
Innanzitutto, è necessario ricordare che, mentre all’inizio del XIX secolo in Europa associazioni come l’African institution stavano ottenendo importanti risultati in termini di abolizionismo, le classi musulmane più ricche non erano affatto propense a rinunciare ad un’attività così redditizia. Infatti, ad approdare ogni anno a Zanzibar erano oltre 50 mila schiavi. L’estensione quantitativa del traffico rimase immutata fino alla prima metà dell’Ottocento, rendendo l’attuale regione della Tanzania il più grande mercato di schiavi dell’Africa orientale. Esaminiamone le caratteristiche.
Prima ancora di mettere piede sull’isola, ogni schiavo aveva vissuto orrori impensabili durante il viaggio in mare. Le condizioni di transito erano talmente disumane da causare la morte di circa 80 mila esseri umani all’anno. Tra gli aspetti più fatali della tratta possiamo annoverare lo scorbuto, epidemie come vaiolo e dissenteria, ma anche la disperazione provocata dalla brutalità della cattura e dalla consapevolezza di un destino ignoto e raccapricciante.
Il centro di commercio a Zanzibar, funzionava nel seguente modo: gli schiavi venivano prima disposti in ordine di altezza, subito dopo essere stati lavati, ornati di anelli, bracciali e di una veste colorata a tinta unita. Tutte queste pratiche erano mirate a renderli esteticamente gradevoli in accordo con il gusto dei potenziali acquirenti. I proprietari ne cantilenavano i pregi fisici e caratteriali, e facendoli sfilare uno ad uno, annunciavano a gran voce i loro prezzi. Se tra il pubblico qualcuno esprimeva interesse, seguiva il procedimento dell’ispezione.
Le testimonianze a nostra disposizione non mancano di sottolineare che l’esecuzione di tale pratica superasse in accuratezza quella di qualsiasi mercato di bestiame europeo. Il compratore si accertava anzitutto del fatto che lo schiavo sapesse parlare, e che non digrignasse i denti o russasse durante il sonno. Successivamente si passava al controllo di qualsiasi parte del corpo, anche di quelle più intime. Una volta assicuratisi che lo schiavo non fosse affetto da particolari patologie, l’affare poteva dirsi concluso. Alla fine di ogni giornata, le povere vittime venivano spogliate dei loro ornamenti e inviate nelle case dei loro nuovi proprietari. Si sarebbe prospettata un’esistenza contraddistinta da abusi e tormenti.
Il Mercato di Zanzibar rappresenta solo uno degli orrori che caratterizzarono lo schiavismo islamico. La tratta che passava per l’Oceano Indiano, unitamente a quella europea-atlantica, causò danni demografici incommensurabili alla popolazione africana. Nel 1807 il Parlamento inglese aveva approvato a larga maggioranza la fine della tratta degli schiavi, considerata da quel momento in poi un vero e proprio reato. Lo Slavery Abolition Act del 1833 abolì la schiavitù nella maggior parte delle colonie britanniche, liberando oltre 80 mila persone. Per buona parte del XIX secolo gli inglesi cercarono di porre fine al Mercato di Zanzibar, lotta che ebbe successo solo nel 1876, anno dell’abolizione definitiva del commercio di schiavi sull’isola.