L’impresa di Vasco da Gama, compiutasi il 20 maggio 1498, aprì le porte del mondo al Portogallo. Con la circumnavigazione dell’Africa e l’approdo nei porti indiani, i lusitani in un solo colpo mettevano fuori gioco i commerci arabi sull’Oceano Indiano e si impadronivano di rotte vitali per l’accrescimento della propria potenza, non solo economica, ma anche militare e politica. Di fronte al fatto compiuto, il mondo musulmano non esultò di certo. Neppure quello cristiano, nella sua multivalente e sfaccettata anima, ebbe di che gioire. I conti veneziani subirono un grande contraccolpo; ormai gli affari si facevano altrove, il Mediterraneo orientale era divenuto improvvisamente una piccola (ma non misera) fetta di mercato in un contesto non più esclusivo. Urgeva una soluzione e al più presto: così i destini di Venezia e dell’ideale Canale di Suez vennero ad incrociarsi, in pieno XVI secolo!
Dato per certo il successo portoghese, il 5 gennaio 1502 il Consiglio dei Dieci mise in piedi una commissione di ricerca, la Giunta delle Spezie (Additio Specierum). 15 membri esatti con l’essenziale compito di trovare una soluzione per non soccombere. Un modo innovativo per continuare a svolgere quell’attività che aveva reso (e avrebbe continuato a farlo) Venezia la padrona dei mercati nell’ecumene allora conosciuto. I primi con cui la Serenissima tentò un approccio diplomatico – molto discreto, al limite della segretezza – furono i Mamelucchi d’Egitto. L’ambasciatore Benedetto Sanudo si recò nella corte sultanale del Cairo con esatte raccomandazioni. Il messo veneziano avrebbe dovuto convincere i Mamelucchi della cattiva reputazione portoghese, così che gli stessi ambasciatori del sultano avrebbero comunicato “a queli Signori de India” di non fidarsi dei nuovi cristiani giunti da ovest.
Purtroppo per Sanudo e per lo Stato veneto, la missione non sortì gli effetti sperati. Sconvolgente ciò che accadde all’alba del 1504: per la prima volta una flotta mercantile veneziana tornò da Levante con le stive vuote. Sintomo del fatto che le spezie viaggiavano per altre strade, una di queste portava a Lisbona, e dalla capitale del regno portoghese si slanciava alla volta di Anversa. Con lo zampino dei Fugger si venne a costituire un’efficiente rete di mercato che riusciva a collegare i maggiori poli d’Europa alle Fiandre. Ci guadagnava la città affacciata sulle sponde della Schelda, ma il profitto era anche del Portogallo. Argento e rame facevano il percorso inverso a quello delle spezie, arricchendo un regno fino ad allora oscurato dalle grandi potenze europee.
Poi che per Venezia oltre al danno rappresentato dal connubio Portogallo-Fiandre si vivesse la scottante impressione della beffa, è quantomeno ironico. Jacob Fugger era lo stesso che fino ad un decennio prima vendeva il pepe della Serenissima oltre le Alpi. Ma dalle parti di San Marco nessuno tirò i remi in barca. La Giunta delle Spezie inviò due emissari, nelle persone di Leopoldo da Ca’ Masse e Bernardino Giova, a Lisbona e in Egitto. È il messaggio del Giova a destare la nostra massima attenzione. Egli doveva suggerire al vertice sultanale un taglio dell’istmo di Suez. Capiamo bene la portentosa entità del progetto, considerato colossale ancora nel 1869, ben tre secoli e mezzo dopo la proposta veneziana.
Bernardino Giova consigliava di “Far una cava dal Mar Roso che mettesse a drectura in questo mare de qua, come altre volte fo rasnado de far”. Soffermandoci sulla locuzione a drectura si può scorgere l’innovazione della proposta e la concretezza del piano. Venezia, per il presunto Canale di Suez, non proponeva il riutilizzo dell’antica idrovia greco-romana! No, nei piani dogali doveva essere realizzato un collegamento diretto tra Mediterraneo e Mar Rosso. Poi del progetto non se ne fece più nulla, anche perché veneziani e i subentrati Ottomani preferirono rispondere al Portogallo con le armi piuttosto che con le idee. Il proposito tuttavia continuò a vivere anche sotto l’ala di Costantinopoli.
L’esploratore/diplomatico Alvise Roncignotto, al soldo di San Marco, comunicò alla laguna come gli Ottomani nel 1529 stessero lavorando sull’istmo di Suez. Circa 12.000 uomini seguivano gli ordini del gran visir Pargali Ibrahim Pascià. Gli scavi durarono almeno fino al 1533, salvo poi interrompersi per via dei contrasti tra il ministro e Solimano il Magnifico. Contrasti che – per dovere di cronaca lo dico – sfociarono nell’uccisione del gran visir per volontà del Sultano.
Nuovamente nel 1576 si registrò un tentativo turco, almeno stando alle parole del vicentino Filippo Pigafetta (fratello del ben più noto Antonio, sui cui un domani scriveremo, lo prometto). L’inviato scriveva sul tentativo ottomano: “di scavare una gran fossa a fine di condurre più lesto, et con più corta strada le artiglierie, i legnami, le munitioni da guerra, et le altre cose al Suez. Né prima scaricarle in Alessandria, et indi menarle al Cairo su per il fiume, al di là della terra al Suez”.
I costi proibitivi e le capacità tecniche non proprio all’altezza stroncarono sul nascere l’iniziativa costantinopolitana. Il Turco giustificò l’interruzione dei lavori con il leggendario timore aristotelico. Secondo loro le acque del Mar Rosso erano di dieci metri più alte rispetto al livello mediterraneo. Agli occhi di Pigafetta appariva più come una maldestra scusa e forse aveva ragione di crederlo.
All’indomani del XVII secolo, le attenzioni del mondo si riversarono altrove. Non che i commerci non fossero più importanti (semmai il contrario), ma la Sublime Porta, e a maggior ragione Venezia, non aveva più interesse nel realizzare quel mastodontico progetto. Si dovrà attendere la seconda metà dell’Ottocento. La vicenda testimonia come il Canale di Suez non fu un’ottocentesca invenzione europea dell’ultima ora. Assolutamente no, il cosiddetto taglio dell’istmo fu una prerogativa tolemaica, romana, veneziana e in ultima analisi ottomana.