Nella Roma antica, e in particolare in quella imperiale, il sopruso nei confronti della condizione servile era del tutto normalizzato. Gli schiavi, privi di diritti civili, potevano solo sperare di elevarsi al grado di liberti, qualora il loro dominus rinunciasse generosamente ad esercitare la potestà nei loro confronti. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, neppure la manu missio valeva ad emancipare per sempre i servi dai rispettivi padroni… Vedio Pollione insegna.
I liberti, infatti, rimanevano vincolati ai ricchi da obblighi di deferenza e di dipendenza economica. Tuttavia, potevano almeno esercitare attività commerciali e arricchirsi, e in questo modo spianarsi la via per l’acquisizione di titoli accessibili in virtù del censo, come quello equestre. Era stato esattamente questo il percorso della famiglia di Vedio Pollione, figlio di liberti legato nientemeno che alla figura di Augusto e arricchitosi a tal punto da edificare un’enorme villa a Posillipo.
La sua ascesa, fonte di invidia per molti contemporanei, era culminata con la scelta del princeps di affidargli la riorganizzazione economica e amministrativa della ricca provincia dell’Asia. Si trattò di un’occasione preziosa per il liberto beneventano, che così si ritrovò in mano un patrimonio più che sufficiente ad apportare qualche miglioria alla sua già splendida abitazione campana. Come avrebbe lamentato Seneca di lì a poco, d’altronde l’ostentazione era l’imperativo dei nuovi tempi. Tempi di luxuria e di avidità, lontani dalla moderazione dell’antica aristocrazia repubblicana…
Petronio, letterato vissuto alla corte di Nerone, avrebbe offerto un ritratto molto efficace di questi nuovi tempi nella figura del liberto Trimalchione. Di origini asiatiche e arricchitosi proprio grazie al commercio, il liberto petroniano era diventato persino funzionario di Augusto. Un tempo assoggettato, ora patronus, aveva dimenticato il passato servile e non si faceva scrupoli a punire severamente i propri schiavi. Bastava davvero poco per scatenare la sua ira: un vassoio caduto a terra, lo smarrimento di una veste padronale da parte del servo…
La dinamica descritta parodicamente da Petronio si avvicina in modo impressionante a quella narrata da Seneca a proposito del nostro Vedio Pollione. Con una sola differenza: quest’ultimo non si accontentava di punire la negligenza dello schiavo con percosse o crocifissione, come era abitudine all’epoca. No, il sadico liberto aveva escogitato un metodo all’altezza della grandiosità della sua villa. Il servo colpevole di distrazione, infatti, veniva gettato in pasto alle enormi murene che nuotavano nella vasca esterna all’abitazione.
Una scelta molto crudele, a tal punto spropositata da spingere Augusto stesso a intervenire. Per impressionare l’imperatore, infatti, Pollione lo aveva invitato a cena, e aveva palesato tutta la sua cattiveria dopo che un servo aveva fatto cadere un calice a terra. Vedio ne era certo: il princeps si sarebbe compiaciuto nel vedere uno schiavo divorato da enormi pesci con denti affilati come lame.
Il liberto si sbagliava, perché Ottaviano, che al tempo si ergeva a moralizzatore dei costumi, inorridì non poco di fronte a quell’iniziativa. Non solo. Dopo aver ordinato di gettare tutti i calici di Vedio nella piscina delle murene, lo fece scendere dal piedistallo con un inaspettato rimprovero. “Tantum tibi placebis ut ibi aliquem duci iubeas ubi Caesar est?“. “Sei tanto compiaciuto di te stesso da pronunciare una condanna a morte, là dove è presente l’imperatore?”. Parole più taglienti dei denti delle murene per un uomo che cercava solo l’ammirazione dell’imperatore. Chissà se dopo l’ammonizione di Augusto, Vedio ha continuato a darsi delle arie per la sua spietatezza…