Tutta la narrazione che segue ha una data cardine come punto di riferimento, un lasso temporale con capo e coda ben delineati, un momento cruciale attorno al quale far ruotare ogni argomentazione che da qui a breve sviscererò attentamente. La data in questione è il 13 agosto 1876 e il luogo d’interesse è il Festspielhaus di Bayreuth. Nella splendida cittadina della Baviera settentrionale, da quel 13 agosto fino al 17 dello stesso mese va in scena per la prima volta la rappresentazione dell’opera “L’anello del Nibelungo”. Richard Wagner sforna un capolavoro del dramma operistico e il suo artista/costumista Emil Doepler deve metterlo in scena a dovere. Così inventa dal nulla degli accattivanti elmi cornuti da far indossare ai protagonisti sul palcoscenico. Quello sarà il punto d’origine da cui scaturirà un falso storico di enorme portata, una scelta stilistica che distorcerà la realtà storica inerente i vichinghi.
Sebbene lo si sappia da anni ormai, sento il dovere di sfatare – per la milionesima volta – il mito degli elmi norreni dotati di corna. Dopo il successo della Tetralogia ogni rappresentazione che abbia anche minimamente a che fare con i vichinghi sente la necessità di porre sul loro capo questi elmi cornuti. Una consuetudine che in un modo o nell’altro è sopravvissuta fino ai giorni nostri. Ma quegli elmi appariscenti e tutt’altro che ergonomici gli uomini del nord, che spaventarono mezz’Europa con le loro incursioni, non li videro mai, nel modo più assoluto. Nel 1942, un ritrovamento fortunoso nei pressi di Viksø, in Danimarca, potenzialmente può alimentare questa iconografia travisata. Invece accade esattamente il contrario, per fortuna mi sento di dire.
Scavando non lontano da una palude, un operaio mette mano su due elmi sporchi, apparentemente “finti”. I due manufatti finiscono in un capanno ma il caposquadra capisce come sotto sotto ci sia qualcosa da scoprire sui due oggetti del mistero. Interviene il Museo Nazionale di Danimarca, il quale analizza i manufatti e mette nero su bianco i dettagli sul loro conto. Gli elmi sono in bronzo, decorati con fermagli e bullette. Interessanti sono i rilievi ad imitazione di occhi e sopracciglia. Eppure a destare grande attenzione sono quelle corna ricurve, molto simili a quelle di un toro.
Facile ipotizzare un collegamento con i vichinghi del IX o X secolo, andando ad alimentare l’annoso falso storico che al contrario si vuole sfatare. Fino a pochi decenni fa, non potendo sfruttare la datazione al radiocarbonio (tecnica poco efficacie con i metalli), gli esperti collocavano gli elmi di Viksø alla tarda Età del Bronzo. Analisi più recenti, condotte su resti organici ancora presenti su uno degli elmi, sostengono come i manufatti siano all’incirca del 900 a.C. Non proprio l’epoca delle saghe norrene.
Allontanata l’ipotesi vichinga, è sacrosanto evidenziare un altro aspetto dello studio, che in questa sede magari può interessare meno, ma che invece presenta degli spunti argomentativi di tutto rispetto. Le decorazioni degli elmi lasciano intendere una “vicinanza” artistica con culture diverse da quelle scandinave. Il riferimento è alle tradizioni mediterranee della penisola iberica o della nostra Sardegna. A testimonianza degli scambi commerciali già vividi all’epoca. L’anello di congiunzione sarebbe da rintracciare nel popolo dei Fenici, i quali durante la tarda Età del Bronzo avrebbero commerciato metalli e altri beni con gli scandinavi. Lo scambio non era solo di merci, ma anche di nozioni, idee e innovazioni.
Lo studio va oltre ma, come anticipato, non è di quello che volevo parlare. Risulta quindi evidente come in primo luogo il falso storico degli elmi cornuti sia contemporaneo e nasca in seno al tardo Ottocento. In seconda ed ultima analisi è curioso sottolineare come una scoperta potenzialmente “vantaggiosa” per la popolare iconografia vichinga risulti essere in realtà il fattore principale grazie al quale poterla sconfessare. Una volta per tutte? Chissà…