In origine fu una distesa paludosa ricolma di canne da zucchero. Col passare del tempo l’ambiente mutò sensibilmente, assumendo sempre più la fisionomia di una selva composita. Fino a 6.000 anni fa nei pressi di Ynyslas, un angolo della costa gallese che si affaccia sul Mar Celtico, esistevano quindi grandi alberi di quercia, betulla, così come pini, salici, noccioli. Un prato verde smeraldo si stendeva alla base di questo microsistema rigoglioso, un manto che iniziò progressivamente ad assaggiare il sale dell’acqua oceanica. Il livello del mare si alzò e dopo millenni stravolse l’habitat, dando vita a quella che oggi conosciamo come la “foresta sommersa” del Galles.
Se oggi qualcuno si recasse in loco, esattamente nella Cardigan Bay, troverebbe principalmente due tipi di persone: surfisti da una parte e amanti del torbido Celtic Sea, braccio d’acqua che intercorre tra Gran Bretagna e Irlanda, dall’altra. In quest’ultima categoria rientra anche un tale Martin Bates, geoarcheologo e professore presso la University of Wales Trinity Saint David.
Bates, che quello scorcio naturale l’ha visto un numero indefinito di volte nell’arco della vita, non fa mistero del suo interesse per la “foresta sommersa” di cui si notano alcune tracce solo in determinati momenti dell’anno. Egli parla di “pinne di squalo“, descrivendo i resti di antiche betulle o querce dal trascorso plurimillenario. Cose che si possono vedere ma solo se Madre Natura lo desidera. Osservare questa distesa di una vita che fu è possibile solo a seguito di una forte mareggiata, in grado di eliminare i temporanei sedimenti umidi sulla superficie delle piante.
E comunque permane uno spesso strato di torba, coetaneo (forse anche più vecchio…) degli alberi. Ma i segreti più reconditi si nascondono nello strato di argilla e limo che precede di 20 o 30 centimetri la radice dell’arbusto. Questo particolare sedimento è di significativa importanza perché attraverso una sua analisi si può comprendere cosa ci fosse in quel luogo prima dello sviluppo vegetativo. Però – c’è sempre un però – un terreno simile risulta essere croce e delizia per i ricercatori. Ricco di novità su un passato sconosciuto, eppure maledettamente difficile da scavare per ricavarne qualche informazione.
Lavorare sui ceppi riemersi è poi, come si può ben immaginare, una corsa contro il tempo. Bates sostiene come siano due o tre i mesi in cui delle credibili indagini di tipo geologico/archeologico possano avere luogo. Trascorsi i quali, la marea torna a primeggiare sui resti delle piante. Ma fino ad ora qualche passo avanti i ricercatori l’hanno compiuto.
Risale agli anni ’60 dello scorso secolo la scoperta archeologica inerente le ossa di un Bos primigenius, comunemente noto come Uro. Si trattava di un maestoso bovino dalle grandi e caratteristiche corna originario dell’Europa, ormai estinto da circa quattro secoli. Ma la foresta sommersa non ha smesso di parlare. Note sono le aree dichiarate “ad alto interesse scientifico” e non è detto che nei prossimi mesi questo appezzamento sabbioso torni al centro della cronaca nazionale e, perché no, internazionale.