22.413 immersioni, 354 lingotti di rame grezzo per un peso totale di quasi dieci tonnellate, una tonnellata di stagno (in lega con il rame formerebbero 11 tonnellate di bronzo). A ciò aggiungiamo 149 tra vasi e giare cananee, perle vitree e preziosissimi lingotti in vetro blu cobalto, lavanda e turchese (sono i primi lingotti in vetro da noi conosciuti); perle d’ambra, avorio, gioielli, ceramiche pregiate e oro. All’apparenza è una lista asettica, un freddo compendio di oggetti rari, in realtà è solo una minima parte di ciò che il relitto di Uluburun ha regalato al mondo storico, scientifico ed archeologico contemporaneo.
Scoperto per caso nel 1982 da un cercatore di spugne a largo del Mar di Levante (Mediterraneo orientale), l’Uluburun attirò subito l’attenzione mediatica globale. Il gran numero di immersioni qui sopra citate si è spalmato nell’arco di 10 anni. Un lasso temporale in cui i continui scavi hanno assunto la portata di un’impresa titanica. Sì, perché man mano che si è andati avanti con i lavori di pulitura, raccolta ed analisi, si è compreso come il carico della nave fosse frutto di un’esigenza reale. Ok reale, ma per conto di chi?
Esami dendrocronologici hanno fornito una datazione valida per la nave: XIV secolo a.C. Basandosi poi sulle ceramiche ritrovate, si comprendono due informazioni essenziali. In primo luogo, la nave apparteneva alla flotta egizia. In secondo luogo, essa affondò non prima del tempo di Nefertiti (1370 a.C. circa – 1330 a.C. circa). Gli oggetti ritrovati al suo interno provenivano da svariate zone del mondo allora conosciuto: Europa continentale, Africa settentrionale, così come le nostre due isole di Sicilia e Sardegna, ma anche dalla Mesopotamia. Facendo un veloce calcolo, si stima che Uluburun trasportasse manufatti realizzati da circa 10 culture diverse.
Ci si chiese, già nell’84, come la nave cargo giunse al naufragio. Molto probabilmente, il vento forte spinse l’imbarcazione verso un frastagliato promontorio 10 km a sud-est di Kaş (Turchia). Non è un caso che il carico della nave si sia riversato su un pendio sottomarino a circa 50 metri di profondità.
Forse la nave di Uluburun salpò da un porto levantino, in direzione Cipro o, ancor più probabile, Rodi. L’isola nell’Egeo era un centro di smistamento merci molto frequentato dai mercantili egizi. Uluburun non farebbe eccezione in tal senso. Anche la tecnica di costruzione e assemblaggio del vascello stupisce; è l’esempio più antico (nonché il primo osservato) di nave costruita col metodo “prima lo scafo”, con giunzioni a tenone e mortasa. Una tecnica questa che verrà ripresa nei secoli successivi prima dai greci e poi dai romani.
Gran parte dei manufatti ora si trovano in esposizione presso il Museo di Archeologia Subacquea di Bodrum, in Turchia. La stessa struttura è dotata di laboratori in servizio dal 1994. Questi hanno il compito di preservare e conservare nel miglior modo possibili i resti del relitto. Sarà difficile battere il record di Uluburun, difficilissimo.