Film e serie televisive incentrate sull’epoca d’oro norrena hanno abituato i nostri occhi ad alcuni particolari estetici che difficilmente sfuggono all’attenzione: i tatuaggi vichinghi. La reazione dello spettatore di fronte alla messa in mostra può essere duplice, o sorge il dubbio sulla veridicità storica della rappresentazione o si lascia correre, dando tutto per buono e fidandosi della necessità artistica di produzioni tutt’altro che accurate da un punto di vista storico (chi vuole cogliere una critica, è libero di farlo). La prima categoria di individui probabilmente avrà appositamente aperto questo articolo. Bene, da dove posso iniziare?
Ma certo: le fonti. Ahinoi, poche sono le cronache descrittive realizzate dagli scandinavi in epoca altomedievale giunte fino al tempo presente. Meno ancora sono quelle incentrate sulla vita quotidiana di una famiglia nordica tipo. Quindi se volessimo scovare qualche informazione sui tipici tatuaggi vichinghi dovremmo affidarci ai resoconti arabi redatti tra IX e X secolo. La casistica non dovrebbe stupirci oramai. È comunemente risaputo come messi diplomatici e mercanti musulmani fossero in costante contatto con gli “uomini del nord” grazie a canali commerciali ben noti. Uno tra tutti: il Volga.
Aḥmad ibn Faḍlān, viaggiatore e scrittore arabo, partì dalla floreale corte di Baghdad e per volontà del califfo abbaside cercò di stringere accordi di natura economica con i “Rusiyyah“, ovvero i Rus. La missione diplomatica durò dal 921 al 922 e il resoconto dell’uomo è per noi una fonte inestimabile, soprattutto se l’intenzione è quella analizzare il punto di vista di un raffinato colto arabo una volta incontrati “quei rozzi uomini alti e sporchi” provenienti dal nord. Nella regione del Medio Volga, il viaggiatore di corte presumibilmente si imbatté nei vichinghi commercianti di schiavi, tipici dei mercati euroasiatici orientali.
Il perspicace ibn Faḍlān ce li descrive così: “Non ho mai visto corpi così perfetti come i loro. Alti come palme, biondi e rossastri, non indossano né tuniche né caftani. Ogni uomo indossa un mantello con il quale copre metà del suo corpo, in modo che un braccio sia scoperto. Portano asce, spade, pugnali e li hanno sempre a portata di mano. Usano spade franche con lame larghe e increspate” – e nella descrizione il messo prosegue asserendo come fossero “cosparsi di tatuaggi” (il termine utilizzato non è propriamente “tatuaggio” ma è confrontabile con la parola araba per figurare i motivi geometrici delle moschee, in effetti somiglianti alla simbologia runica).
Ecco, appunto, i tatuaggi. L’esploratore abbaside ci dice come essi appaiano di colore blu o comunque di un verde scurito. Quella tinta era data dalla colorazione della cenere lignea, comunemente utilizzata per disegnarsi sulla pelle. I motivi simboleggiavano alberi, nodi (interpretati da ibn Faḍlān come collane e anelli femminili) e bestie varie (la bestia feroce in procinto di attaccare doveva essere tipica dei commercianti scandinavi, perché altre fonti ne riportano la memoria, cito ad esempio Yacoub Al-Tartushi, esploratore musulmano proveniente dalla magnifica al-Andalus).
Sebbene le saghe norrene non parlino mai esplicitamente di tatuaggi (pur descrivendo sporadicamente l’aspetto fisico di un prestante guerriero) ci sono altre testimonianze che potrebbero presupporre l’effettiva esistenza dell’usanza. E quindi come non chiamare in causa il ritrovamento in Siberia di un capo Scita del V secolo a.C. Il suo corpo, cosparso di tatuaggi, si mantenne inalterato grazie ai ghiacci. Non lasciamoci ingannare dalla distanza temporale. L’ascendenza Scita incontrò di per certo i primi mercanti nordici, da cui forse (ma è un’ipotesi) appresero l’arte del disegno su pelle. Quindi, a concludere, quelli che noi oggi chiamiamo vichinghi presentavano tatuaggi? Molto probabilmente sì. Fonti rispettabili lo segnalano e ritrovamenti archeologici lo confermano. Ma si attendono sviluppi scientifici in merito, come sempre d’altronde.