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Túpac Amaru II, il rivoluzionario Inca che sfidò l'Impero spagnolo

Túpac Amaru II, il rivoluzionario Inca che sfidò l’Impero spagnolo

Il Settecento è il secolo delle rivoluzioni. Quella americana e quella francese sono le più note, anche perché hanno avuto successo, destrutturando i regimi preesistenti e dando vita a qualcosa di nuovo, di inedito, per l’appunto, di rivoluzionario. Poi ci sono tutte quelle insurrezioni che la storia mainstream in parte dimentica o comunque subordina alle più rinomate. Principio di eurocentrismo o semplice distrazione accademica? Difficile dirlo, ma non è assolutamente mia intenzione giudicare. Anzi, la volontà odierna è proprio quella di presentare un personaggio storico centrale, sperando di suscitare in voi interesse e curiosità nei suoi confronti, o meglio, nei confronti di ciò che ha fatto, di ciò che ha lasciato in eredità al mondo venuto dopo di lui. Il suo nome è Túpac Amaru II, l’uomo che nel XVIII ha sfidato l’Impero spagnolo in Sudamerica.

Túpac Amaru II, il rivoluzionario Inca che sfidò l'Impero spagnolo

Sebbene sui libri di storia occupi lo spazio di mezza pagina a termine capitolo, Túpac Amaru II ha rappresentato per il Sudamerica, e più nello specifico per le popolazioni andine, quello che per noi italiani ha rappresentato Garibaldi. Solo che mentre quest’ultimo ce l’ha fatta – con tutte le precisazioni del caso sull’entità del lascito risorgimentale – il leader indigeno, presunto discendente dei reali Inca, non ha portato a termine la ribellione iniziata nel 1780. Prima di arrivare alla narrazione dell’evento, sono necessarie due parole sulla biografia del nostro grande uomo.

Nacque José Gabriel Condorcanqui Noguera il 19 marzo 1738 (altre fonti riportano il 1742 come anno di nascita) nella città di Tinta, allora parte del distretto di Cusco, a sua volta divisione amministrativa del Vicereame del Perù sotto il dominio spagnolo. Il padre era un alto funzionario spagnolo, mentre la madre apparteneva ad una dinastia di nobili quechua. Probabilmente lontanissimi parenti dell’ultimo imperatore Inca, quel Túpac Amaru che nel 1572 venne giustiziato dai conquistadores oramai predominanti nell’America meridionale.

Túpac Amaru II ultimo imperatore Inca

In quanto aristocratico mestizo (meticcio) fu battezzato col rito cattolico e crebbe seguendo una rigida educazione gesuita. Già adolescente era il prototipo del nobile locale peruviano: accompagnava il padre nelle questioni lavorative, parlava fluentemente lo spagnolo, il latino e la sua lingua madre, il quechua. A 18 anni perse entrambi i genitori ed ereditò dal padre la carica di cacique (italianizzato in cacicco, ossia funzionario indigeno). Più o meno nello stesso periodo si sposò con Micaela Bastidas Puyucahua di Abancay, dalla quale negli anni ebbe tre figli. Come cacicco si spostò a Cusco, città che divenne il centro operativo dei suoi affari, principalmente mercantili e talvolta amministrativi. Eppure una volta entrato nei gangli della burocrazia ispanica, José Gabriel Condorcanqui aprì gli occhi sulla brutalità del dominio coloniale.

Da secoli nell’America sotto la corona spagnola si era imposto un sistema socio-lavorativo iniquo e squilibrato. Per quanto non si debba commettere l’errore di polarizzare il ruolo giocato dagli attori di questo sistema – perciò non distinguere tra buoni e cattivi, ma esaminare caso per caso nel modo più oggettivo avvalendosi delle fonti a disposizione – si può comunque offrire una panoramica generale e indicativa della questione. Ad una classe di funzionari, aristocratici iberici e nativi alleati (i cosiddetti curaçás) si contrapponeva una larga frangia della popolazione sfruttata, composta da gruppi indigeni. Essi lavoravano fino allo sfinimento nelle miniere e nelle fabbriche tessili, come usufrutto sulle terre che per diritto di conquista appartenevano agli spagnoli.

Non è finita qui, perché l’autorità tassava pesantemente i redditi dei nativi e applicava dei rincari mirati ai beni di prima necessità solo per la popolazione autoctona. Nei decenni, già dal primo Seicento, i contadini del posto si ribellarono più volte alla corona e ai suoi rappresentanti. José Gabriel Condorcanqui intercettò il malcontento dei lavoratori, spesso sfociato in aperta ribellione nella metà del XVIII secolo, e lo utilizzò a vantaggio suo e dell’intera comunità nativa. Ciò lo rese speciale, unico nel suo genere, perché da privilegiato scelse di sposare la causa degli oppressi, divenendo volto e simbolo della ribellione.

Túpac Amaru II Vicereame del Perù

Condorcanqui pensò di ribaltare o quantomeno smuovere l’impalcatura coloniale del Vicereame inizialmente con le buone, per vie legali. Nei vari consigli di cui era membro poiché cacicco, alzò la voce sulla questione dell’ingiustizia vissuta quotidianamente dalla sua gente. A nulla servirono le formali lamentele. Perciò nel 1770 adottò il nome di Túpac Amaru II e nel farlo operò in favore di una decisiva svolta nel contesto politico andino. In primis perché con l’assunzione del nuovo nome, si sottolineava la sua discendenza con l’ultimo imperatore Inca, anche se effimero. Conseguentemente il cacicco intendeva mostrarsi come il continuatore di quell’opera ribelle, mai doma di fronte alle angherie dell’Impero spagnolo. Poi non mancò il fattore “legittimazione“, che in un’epoca fatta di simbolismi e rievocazioni aveva il suo peso specifico.

Contro chi si era posto il nostro redivivo Sapa Inca (monarca Inca)? Probabilmente il più grande nemico della causa insurrezionalista fu Antonio Juan de Arriaga y Gurbista. Odiatissimo corregidor di Tinta (governatore coloniale con funzioni di natura municipale), Arriaga era noto per la sua crudeltà e il suo “meticoloso” approccio per la riscossione delle tasse. A buon intenditore, poche parole. Túpac Amaru II conosceva bene Antonio Arriaga e in più di un’occasione cercò di convincerlo della necessità di un progetto riformatore, che si facesse carico delle istanze dei lavoratori autoctoni. Arriaga non ne volle mai sapere nulla, così la ribellione, che scoppiò nel novembre del 1780, pretese per prima la sua testa.

Túpac Amaru II, a capo di una fazione inferocita, riuscì a rapire ed arrestare il corregidor. Chiese un riscatto per Arriaga pari a 25.000 pesos in armi, munizioni, viveri e scorte di vario tipo. Quando lo ottenne, fece impiccare il funzionario spagnolo in pubblica piazza, gremita perché invitata dallo stesso Amaru alla partecipazione. Dopo l’esecuzione, il leader Inca emise un proclama in cui di fatto affrancò tutti i ribelli (nativi, meticci e creoli in egual modo) dalle catene dell’autorità coloniale spagnola. In poche settimane radunò un esercito composto da decine di migliaia di indigeni. I resoconti dei collaboratori di Túpac Amaru II parlano di 60.000 uomini; molto più probabile fossero la metà.

Túpac Amaru II a cavallo con vestiti occidentali

Affidando ai fedelissimi alcune colonne del suo esercito – alla guida di una di queste si pose la moglie, Micaela Bastidas, il quale ruolo nell’intera insurrezione fu centrale – Túpac Amaru II estese il suo controllo su tutto l’altopiano andino meridionale, pur non riuscendo mai a prendere Cusco. In quei concitati momenti di apparente liberazione, Túpac Amaru II restaurò l’Impero degli Inca, anche se più nella forma che nella sostanza; iniziò a vestire con abiti tradizionali e a parlare con i suoi uomini in lingua quechua.

L’euforia della restauratio imperii in salsa Inca durò poco. Poiché Cusco rimase in mano spagnola, l’esercito ribelle si ritirò in quel di Tinta, cercando nuove strategie per sovvertire l’ordine imperiale. Gli spagnoli però avevano alle spalle una certa esperienza in materia di repressione e lo dimostrarono nei primi mesi del 1781. Il ministro plenipotenziario della corona José Antonio de Areche marciò verso il quartier generale dei riottosi alla testa di circa 17.000 uomini. Erano la metà, è vero, ma possedevano tattiche di guerra moderne e armamenti di molto superiori in qualità e quantità.

La resa dei conti avvenne nella battaglia di Checcacupe il 6 aprile 1781. L’esito fu scontato. I ribelli non poterono nulla contro il predominio tattico-militare degli spagnoli. Il visitador general de Areche ordinò l’arresto di Túpac Amaru II, di sua moglie e della prole. Trascinati fino a Cusco, furono tutti condannati a morte, previa tortura. Il 18 maggio 1781 il Sapa Inca dovette assistere all’esecuzione di sua moglie e di uno dei suoi figli, prima di avviarsi egli stesso verso un più triste epilogo. Nella Plaza de Armas di Cusco, i soldati del visitador squartarono vivo il capo dei ribelli e lo smembrarono. Lo spettacolo macabro si concluse con l’incenerimento di quel che restava del corpo.

Túpac Amaru II

Repressione che non si placò con la morte dell’Inca. L’autorità inasprì la pressione fiscale sugli indigeni, attuò politiche di segregazione e marginalizzazione sociale. Per ordine del viceré venne proibita, pena la morte, l’utilizzo della lingua quechua. Allo stesso modo si bandì la cultura nativa. La rivoluzione fallita che terminò ufficialmente nel 1782 comportò la morte di circa 100.000 persone. Allora però non si considerò tutto inutile, anzi. Motivati dalle gesta di Túpac Amaru II, gli indipendentisti di José de San Martín e di Simón Bolívar, quarant’anni più tardi dichiararono l’indipendenza del Perù dall’Impero spagnolo.

Túpac Amaru II eredità controversa

Come ho detto in apertura, l’eredità identitaria di Túpac Amaru II è sopravvissuta nel tempo, arrivando fino ai giorni nostri. Tutti conosciamo il rapper statunitense Tupac Amaru Shakur (in arte 2pac), chiamato così in onore del leader Inca. Sono note le organizzazioni che dal nome di Túpac Amaru II hanno preso ispirazione, dai Tupamaros uruguagi all’MRTA, Movimiento Revolucionario Túpac Amaru, un gruppo di guerriglieri inquadrati nel marxismo-leninismo attivo in Perù tra anni ’80 e ’90 dello scorso secolo. Nonostante le moderne associazioni controverse Túpac Amaru II rimane un simbolo nazionale di coraggio e resilienza contro l’oppressione per tutto il Perù.