Vi abbiamo parlato della prima; non abbiamo perso l’occasione di raccontarvi le imprese di Annibale durante la seconda e la risposta orgogliosa di Roma; e quindi ci siamo chiesti: perché non concludere il cerchio portandovi anche la Terza Guerra Punica? E allora iniziamo immediatamente, perché di materiale ce n’è parecchio. Ok, prima però una premessa fondamentale per comprendere la causa del terzo conflitto. Sebbene fu Roma a dichiarare guerra nel 149 a.C., lo fece con intenzioni preventive, per limitare l’espansionismo numida.
Chi erano i Numidi? Dopo la sconfitta annibaliana e i trattati di pace del 201 a.C., Cartagine ci mise poco a riprendersi. I commerci tornarono ad essere floridi e l’economia crebbe nonostante le restrizioni di Roma. Tra queste ce ne era una in particolare che permise ai “vicini” di Cartagine di conquistare territorio a discapito di quest’ultima. L’eterna rivale dell’Urbe non poteva utilizzare il proprio esercito – neppure a scopo difensivo – senza il permesso del senato romano. Massinissa, primo re della Numidia, ne approfittò espandendosi in lungo e in largo. L’obiettivo finale del sovrano berbero era la presa di Cartagine stessa. Dalle parti dei sette colli si convinsero ben presto che quel re, alleato sulla carta, si stava rafforzando un po’ troppo per i loro gusti.
Ci fu un unico modo per sbrigliare una situazione così intricata: dichiarare guerra a Cartagine sfruttando un casus belli – ovvero la messa in piega di un esercito cartaginese contro le disposizioni del trattato di pace. Le ostilità divennero realtà nel 149 a.C. e lo saranno per almeno 3 anni, fino al 146. In realtà Cartagine provò a scongiurare fino all’ultimo un conflitto con Roma, memore di quanto accaduto tempo addietro. Ma i consoli Lucio Marcio Censorino e Manio Manilio Nepote partirono con l’irrevocabile ordine di distruggere una volta per tutte il nemico.
La prima a cadere, tra l’altro senza combattere, fu l’importantissima città di Utica. Ella consegnò un’enorme quantità di materiale bellico ai legionari di Scipione Emiliano (imparentato per via adottiva con Scipione l’Africano). Già allora Cartagine comprese il suo destino. Eppure i consoli, prima di sferrare l’assedio, proposero agli abitanti della città fortificata la salvezza in cambio della resa. A ciò aggiunsero una condizione: i cartaginesi avrebbero dovuto spostarsi di 15 km verso l’entroterra. Beh, chiedere una cosa del genere ad un popolo che aveva prosperato nei secoli grazie al commercio marino era quantomeno azzardato. Nessuno, ma proprio nessuno se lo sarebbe mai aspettato, ma i cartaginesi rifiutarono e si asserragliarono tra le possenti mura. Difesa ad oltranza, fino alla morte.
Iniziò l’assedio, che però si rivelò essere più arduo del previsto. Ci fu allora un cambio al vertice di comando, con Scipione Emiliano che, partito per la campagna da tribuno, assunse la carica di console, assieme al fidato collega Gaio Livio Druso. La coppia, una volta fatta pace con l’evidenza che con le armi non si sarebbe risolto nulla, decise di far sopraggiungere la fame (e con essa anche una pestilenza) all’interno della cinta fortificata. Il blocco funzionò e alla fine la difesa della città crollò. I romani entrarono, ripresero alcune opere che Cartagine aveva rubato durante la Prima Guerra Punica (come ad esempio il Toro di Falaride) e rasero letteralmente al suolo la città. Si concludeva così, nel 146 a.C., la rivalità antica più nota del Mediterraneo.
Due piccole curiosità. Noi, anche un po’ furbescamente, abbiamo alluso alla leggenda del sale cosparso nel titolo. In realtà le fonti antiche non menzionano affatto questo episodio, ma sono piuttosto delle narrazioni del XIX secolo a citarlo. Seconda chicca: noi abbiamo indicato il 146 a.C. come data in cui la guerra concluse, ma ufficialmente il trattato di pace simbolico è stato firmato 2131 anni dopo. Esatto, nel 1985 il primo cittadino romano Ugo Vetere e il sindaco di Cartagine (sobborgo di Tunisi) Chedli Klibi, firmarono una pace simbolica tra le due città. Meglio tardi che mai.