Il Museo del Palazzo Nazionale con sede a Taipei custodisce una delle più grandi collezioni di oggetti preziosi e opere d’arte al mondo, retaggio del millenario trascorso imperiale cinese. Sono 697.490 articoli dall’inestimabile valore artistico, simbolico e storico-culturale. Questi presentano all’ipotetico visitatore non meno di 8.000 anni di storia cinese, partendo dal Neolitico e giungendo fino alle fasi terminali della dinastia Qing. Viste le conclamate tensioni fra Cina e Taiwan, non è difficile capire come mai Pechino da decenni richieda a gran voce la restituzione del tesoro un tempo protetto dalle invalicabili mura della Città Proibita. L’aspetto più controverso, a mio modesto parere, tuttavia non riguarda il perché delle richieste – che col tempo hanno assunto i connotati della minaccia intimidatoria – ma la totale assenza di un ragionamento a monte, di una riflessione logica che conduca ad una risposta univoca, seppur contestabile.
Perciò facciamola assieme questa benedetta riflessione. Chiediamoci da cosa deriva la disputa, come si è evoluta negli anni e come si è giunti all’odierno muro contro muro. Nel farlo toccheremo alcuni avvenimenti centrali della storia contemporanea asiatica e cinese, senza tuttavia approfondirli al dettaglio, altrimenti faremmo notte.
Il 1° gennaio 1912 a Nanchino il dottor Sun Yat-sen annuncia la fine del millenario Impero cinese e proclama la nascita della Repubblica di Cina. Ricordato con piacere sia dall’odierna Cina comunista sia dai partiti pro-unificazione di Taiwan. Probabilmente perché governò così poco da non avere il tempo di intaccare il suo operato. A Sun Yat-sen si deve dunque la cessazione dell’entità imperiale, la proclamazione della repubblica e la fondazione del KMT, il Partito Nazionalista Cinese, il Kuomintang per capirci. Altra cosa per la quale ricordare il vecchio Sun Yat-sen è l’associazione del generalissimo Chiang Kai-shek (voluta più da quest’ultimo che dal padre della patria cinese).
Chiang Kai-shek, che dal 1928 fu primo ministro della Cina nazionalista, dovette far fronte all’invasione giapponese e a tutti i malanni che la Seconda guerra mondiale portò con sé. Tra questi uno particolarmente incisivo fu il comunismo di Mao Zedong. Con la volontà di salvaguardare il tesoro della Città Proibita dalla rapacità nemica, una strettissima commissione creata ad hoc da Chiang Kai-shek si occupò del prelievo della collezione, della sua suddivisione e in seguito dello spostamento logistico. Stipato in circa 20.000 casse di legno, il tesoro attraversò l’immenso territorio cinese, passando di città in città a seconda dell’avanzata giapponese o comunista.
Nel 1949 fu chiara a tutti la sconfitta ideologica e militare del Kuomintang. Così il leader nazionalista portò con sé sull’isola di Taiwan il corredo imperiale dal valore incalcolabile. Lo fece sperando in un futuro in cui la rivalsa nazionalista avrebbe scacciato gli uomini di Mao dalla Cina e avrebbe riposto i 600.000 e rotti pezzi della collezione nel cuore della Città Proibita.
Col tempo però l’idea della riconquista divenne obsoleta, oltre che impraticabile, e nel 1965 la città di Taipei decise di dotarsi di un museo. Il Museo del Palazzo Nazionale (da non confonderlo con il Museo del Palazzo di Pechino, locato nella Città Proibita; i due edifici sono le due facce contrapposte della stessa medaglia) iniziò a mostrare a rotazione le meraviglie della collezione. E pensare che fino alla metà degli anni ’60 i nazionalisti del KMT avevano custodito le casse del tesoro in un vecchio e abbandonato zuccherificio…
Fino ad adesso ho raccontato la storia che un po’ tutti conoscono. Vicenda sulla quale non ci sono chissà quali divergenze di vedute; ma da qui in poi la questione si fa più critica. Nel 1966 la Repubblica Popolare Cinese si addentrò nell’intensa Rivoluzione culturale voluta e architettata dal suo leader. Le guardie rosse affilarono gli artigli e li puntarono contro tutto ciò che apparteneva al passato reazionario della Cina. La campagna contro i cosiddetti “Quattro Vecchi” – vecchie idee, vecchia cultura, vecchie tradizioni e vecchie abitudini – iniziò nell’agosto del 1966. Nell’agosto rosso (di cui parlai in un vecchio articolo) accadde di tutto: massacri, violenze di ogni genere, vandalismo totale. Migliaia e migliaia di opere dal valore artistico e architettonico finirono per essere incenerite.
Le vecchie cose erano “promosse dalle classi sfruttatrici che hanno avvelenato le menti delle persone per migliaia di anni”. Così scriveva il Quotidiano del Popolo, principale organo di stampa del regime maoista. Distruggere i “Quattro Vecchi” significava devastare ciò che era antiproletario, dunque contrario all’esistenza dello Stato comunista cinese. La ferocia iconoclasta condusse alla cancellazione di una parte del patrimonio culturale cinese. In quello specifico momento, la preservazione dei tesori della Città Proibita nella città di Taipei rappresentò per davvero la soluzione migliore. Chissà cosa sarebbe accaduto se i nazionalisti non avessero trafugato “l’oro di Cina”, trasferendolo sul suolo di Taiwan?
Voglio concludere con le parole di Ian Johnson, reporter dalla Cina per testate del calibro del New York Times. L’acuto osservatore in passato ha lavorato a stretto contatto con Pechino, perciò più di altri ha cognizione di ciò che lo circonda. Egli afferma:
«La Repubblica Popolare Cinese è stata fondata come uno Stato rivoluzionario che voleva distruggere il passato, che riteneva avesse trascinato la Cina verso il l’aberrazione. Ma negli ultimi decenni il Partito Comunista ha ridefinito la sua missione per diventare protettore del passato culturale della Cina. Così ora considera i tesori del Palace Museum di Taiwan come proprio patrimonio culturale, forse dimenticando che molti di questi tesori probabilmente sarebbero stati distrutti se fossero rimasti in Cina durante i primi decenni di Governo comunista».