I Romani si riferivano ad esso col nome di Plutonium, un luogo liminale, in cui i vivi potevano accedere nel mondo dei morti, l’Averno dominato dal dio Plutone. Ne esistevano diversi sparsi in tutto il Mediterraneo. Punti contrassegnati da un’aura spirituale, quasi mistica, dove la morte trascendeva il significato carnale del termine e diveniva una condizione transitoria, inaccessibile ai più. Nella città di Hierapolis, oggi in Turchia, gli antichi Romani individuarono uno di questi varchi per l’aldilà. Le chiamarono “porte dell’inferno” per un motivo ben specifico, il quale per loro aveva a che fare con il divino, ma per noi, gente del XXI secolo, è riconducibile nell’ambito della scienza.

È cosa nota, perché documentata, che i Romani praticassero dei sacrifici in prossimità o all’interno di questi luoghi particolarmente importanti da un punto di vista religioso. Ad esempio sappiamo come venissero condotti dei tori in salute oltre le suddette “porte dell’inferno” – in realtà degli accessi in pietra per delle grotte abbastanza particolari – e come da lì non uscissero, se non privi di vita. Ciò che rendeva tutto così inspiegabile (all’infuori dell’ottica religiosa e cultuale, chiaramente) era che i sacerdoti, accompagnatori degli animali, sopravvivevano al rito. Perché loro sì e gli animali no?

Un antico avrebbe avuto la risposta pronta a questa domanda. I sacerdoti in quanto tali, e cioè intermediari tra il divino e l’umano, sarebbero stati i soli a poter compiere la traversata indenni. Un team di chimici e geologi, pur avendo rispetto delle credenze antiche, vi direbbe una cosa del tutto diversa.
Gli archeologi hanno scoperto le porte dell’inferno di Hierapolis nel 2011. Il Plutonium, almeno nella sua parte esterna, è stato accuratamente lavorato e modellato dai Romani così da farlo sembrare davvero l’ingresso per gli inferi. La porta è infatti sormontata da un tempietto ed è circondata da sedili in pietra rialzati per i visitatori. Hierapolis, splendida città d’origine ellenistico-romana, antico capoluogo della Frigia, si trovava e si trova tutt’ora in una delle aree geologiche più attive della regione.

Oltre duemila anni fa, i Greci, e dopo di loro i Romani, credevano che le sue acque termali potessero curare ogni male. Non lontano dal vecchio centro cittadino scorre una profonda fessura dalla quale fuoriesce anidride carbonica (Co2). Questa si riversa nell’aria sottoforma di nebbiolina bianca: l’esposizione neppure troppo prolungata può causare la morte. Persino gli esperti che hanno rinvenuto l’ingresso della caverna hanno constatato il decesso di alcuni uccelli troppo a lungo rimasti nelle vicinanze della stessa. Il Plutonium sorge sopra la faglia. Fate 2+2 e capirete dove si va a parare.
Gli scritti latini dicono che all’interno del Plutonium si trovasse un ambiente abbastanza spazioso, caratterizzato da un “lago di nebbia” sottostante. Il cosiddetto lago ancora oggi ravvisabile, è una bassa distesa di diossido di carbonio. Ciò accade solo di notte, perché i raggi solari durante le ore di luce sono in grado di dissipare la caligine, mentre al calar del sole e fino all’alba l’anidride carbonica, leggermente più pesante dell’aria, rimane pressata sul suolo. Ovviamente più si sale in altezza, minore sarà la concentrazione del composto chimico.

Plausibilmente i sacerdoti eunuchi praticavano i riti nelle ore in cui la concentrazione era massima. Gli animali sacrificali non erano abbastanza alti per sopravvivere all’esposizione, mentre gli officianti del culto sì. Strabone visitò i cancelli dell’Averno presenti a Hierapolis e scrisse una cronaca dell’avvenimento. Curioso notare come lo storico greco associasse l’invulnerabilità dei sacerdoti alla loro castrazione. Quasi, caro Strabone, c’eri quasi…