«Se senti una voce dentro di te che dice ‘non puoi dipingere’, allora a tutti i costi dipingi e quella voce verrà messa a tacere.» – Quelle voci van Gogh le sentiva eccome durante la convalescenza al Saint Paul de Mausole, ospedale psichiatrico di Saint-Rémy-de-Provence nel quale il pittore olandese trascorse gli ultimi drammatici mesi della sua vita. Voci assillanti che lo condussero a realizzare opere magnifiche, non ultime la Notte stellata, Iris ed il celebre Autoritratto. Eppure l’artista, turbato nel corpo e nella mente, nel maggio del 1890 trovò il modo di aggrapparsi ad una speranza per sfuggire dalle grinfie della disperazione. Una speranza figlia della sacra unione tra il suo estro creativo e la fede religiosa. Forte di queste premesse egli realizzò nella tarda primavera Sulla soglia dell’eternità, un dipinto a olio oggi conservato nel Museo Kröller-Müller di Otterlo (Paesi Bassi).
Sulla soglia dell’eternità van Gogh ci arrivò per gradi, non solo metaforicamente. La tela non fu certamente frutto di un sussulto d’inventiva. Al contrario il pittore utilizzò come modello una precedente litografia, risalente al 1882 e raffigurante un vecchio veterano di guerra di cui conosciamo le generalità: Adrianus Jacobus Zuyderland. Dalle poche informazioni biografiche che sono pervenute, sappiamo come l’ex militare partecipò in gioventù ad una campagna non meglio specificata e come ne uscì invalidato, con ingenti danni cerebrali (vittima di Shell shock).
L’ispirazione provenne anche da una stampa che aveva visto qualche anno prima in Inghilterra, ovvero The last Muster di Sir Hubert von Herkomer. Il disegno fu enormemente popolare nel 1875, quando la Royal Academy lo espose nelle sue sale londinesi.
Nel 1890, ovvero durante il periodo di cura nel manicomio di Saint-Rémy, van Gogh non aveva a disposizione la litografia di riferimento. Ciò che invece possedeva era una memoria fotografica fuori dal normale. Osservando la tela si possono scorgere dei dettagli affini alla condizione mentale e psicologica dell’artista in pieno crepuscolo esistenziale (due mesi dopo la realizzazione del quadro, van Gogh morirà suicida). L’anziano seduto sulla sedia raccoglie il volto tra le proprie mani, come disperato per un malessere inestinguibile. Traspare una sensazione di resa, di rinuncia di fronte al tempo che passa per tutti.
Le tonalità sgargianti, lucenti e nitide non si sforzano di celare il “gelo” che la tela trasmette. Sembra un paradosso e forse nella testa di tanti lo è davvero. Non in quella del pittore natio di Zundert. L’inquietudine si percepisce nel distacco tra i colori caldi (l’arancione del fuoco, il giallognolo delle assi in legno e il marrone della sedia) e quelli freddi (l’azzurro/biancastro dei vestiti, il grigio sbiadito dei capelli e della barba).
Frustrazione e malinconia giganteggiano, solo all’apparenza. È il titolo che Vincent van Gogh ha scelto per l’opera, secondo molti critici d’arte, a rivelare una prospettiva indiretta. Sulla soglia dell’eternità significa che persino nei momenti più sconfortanti è possibile aggrapparsi saldamente a qualcosa che salva, sottrae e redime dal baratro più oscuro. Per van Gogh fu l’eternità promessa dalla fede in Dio. Messaggio che espresse schiettamente con la scelta del nome.