Negli USA del primo ‘800 era pensiero comune individuare nelle persone nere la vera problematica di una società idealmente corrotta, senza speranze, allo sbaraglio. Il problema era condiviso tanto a sud – dove la maggior parte dei proprietari terrieri temevano che i loro schiavi sarebbero stati influenzati dal pensiero dei neri liberi – quanto a nord, in quella società di benpensanti che in pubblico dicevano una cosa, ma in privato consideravano gli ex schiavi essere umani di classe B. Urgeva una soluzione, una soluzione chiamata Liberia.
Seguendo l’ispirato esempio inglese (che già da fine XVIII secolo si divertiva a spostare gli indesiderati lealisti tra il Canada e l’Africa Occidentale, in nome di una falsa ricompensa), a ridosso del 1817 nacque negli States l’American Colonization Society. Si trattò fin da subito di un comitato organizzativo con lo scopo di dare una casa in Africa a tutti i neri liberi d’America. E se pensate che sia un’idea quantomeno nobile, vi sbagliate di grosso. Come anticipato, i neri erano considerati un problema per quella società, nonostante i proclama sulla libertà, sui diritti, sull’eguaglianza che decenni prima avevano spinto i moti rivoluzionari sul vecchio e sul nuovo continente.
Gli unici che compresero la scorretta entità del progetto furono i diretti interessati, ma poco contò il loro pensiero. Grazie ad una raccolta fondi di successo, nel 1820 una nave partì da New York con a bordo 88 neri da rimpatriare in una terra che neppure era loro. Arrivati nei pressi della Sierra Leone, si avviarono delle trattative con i locali. Si raggiunse (dietro conguaglio) l’obiettivo di garantire una terra a quelle persone. Delle 88 partite, ne sopravvissero in pochi mesi solamente 33. Ma dall’altra parte dell’Atlantico si festeggiò l’ottimo risultato.
Nacque così il primo nucleo della Liberia, che comprendeva l’isola di Dozoa e il territorio continentale di Capo Mesurado. In 23 anni, solo un quarto dei 4.000 e passa coloni arrivati, riuscì a non cadere vittima di quel territorio così inospitale. Ad essere ostile non era solo la natura, rappresentata da mangrovie e coccodrilli, ma anche gli indigeni locali (e avevano ragione). Malgrado i tassi di mortalità, la prospettiva di vita irrisoria, quella lavorativa nulla, in America si moltiplicarono le società di colonizzazione.
Il loro lavoro congiunto permise alla Repubblica di Liberia di svilupparsi in poco tempo, dotarsi di una capitale – Monrovia – e di un governo. Su quest’ultimo vorremmo soffermarci, perché secondo noi è l’anima della contraddizione. Gli esponenti che avevano in mano le chiavi del neonato paese, si consideravano un’élite superiore ai locali da un punto di vista culturale, politico e religioso. Insomma, le linee guida del razzismo vissuto in America si riprodussero in Liberia.
E pensare che gli indigeni locali, che da secoli abitavano indisturbati quelle terre, non godettero di alcun diritto fino al 1951, quando lo Stato fece qualche timida concessione. La storia recente della Liberia poi è intrisa di sangue, con guerre civili fino al 2003. Anche se due anni dopo sarà capo dell’esecutivo una donna, la prima del continente africano. Ma noi continuiamo a pensare che la Liberia, in qualità di Stato, sia il più contraddittorio dell’intero continente.