Quando si parla di tragediografi greci la mente non può che andare verso i 3 maggiori esponenti del genere: Sofocle, Euripide ed Eschilo. Le loro tragedie sopravvivono da millenni, così come la loro fama. Ciò che forse è meno conosciuto riguarda la loro morte. Tutti e tre infatti decisero di andarsene così come avevano vissuto: in maniera alquanto teatrale.
Allora cominciamo da Euripide, che ebbe una morte abbastanza atroce: sbranato dalle cagne. Vediamo innanzitutto il perché. Il famoso tragediografo era considerato infatti eretico. In una società, quelle greca, in cui non credere rappresentava davvero un’eccezione. Beh, Euripide non era di sicuro uno qualunque.
So però che vi state domandando perché proprio dalle cagne e non dai cani. La risposta è molto semplice e riguarda l’efficienza della punizione. Mentre i cani potrebbero farsi distrarre dall’odore delle cagne e dunque non sbranare il malcapitato, quest’ultime invece, non avendo distrazioni, andavano dritte sulla preda. Crudeli questi greci quando ci si mettevano.
Passiamo ad Eschilo. La sua forse, fra le tre, fu la morte più buffa. Secondo i racconti di Valerio Massimo, l’iniziatore della tragedia greca era calvo e perciò fu scambiato per un masso da un gipeto, una specie di avvoltoio. Tali volatili erano soliti rapire le tartarughe e lanciarle sulle pietre da altezze elevate per romperne il guscio. Pare che a rompersi, in quel caso, fu la testa del povero Eschilo.
Infine arriviamo a Sofocle, sul quale vi sono due storielle buffe. La prima è semplice. Il novantenne (notevole per l’epoca) ateniese stava mangiando un acino d’uva e pare che gli andò di traverso. Questa è almeno la prima versione e meno divertente. La seconda riguarda invece l’invidia del figlio e le sue accuse.
Secondo i racconti infatti il figlio di Sofocle lo accusò di sperperare il suo patrimonio con una giovane donna in quanto ormai era smemorato, decrepito praticamente, e non si rendeva più conto di ciò che faceva. Il tragediografo, ferito nell’orgoglio, per dimostrare che non era né decrepito, né smemorato, recitò a memoria il lunghissimo prologo della sua opera principale, l’Antigone. Lo fece però tutto d’un fiato, l’ultimo che il suo corpo gli concesse.