Lo ammetto, ho un debole per la tradizione popolare romana. Potrei perdermi per ore ed ore nel leggere o ascoltare storie riferite ad un passato così lontano ma così vivido nelle teste di coloro che Roma la sentono, la vivono. Racconti che delle volte nascono dal nulla, come dal nome di una strada o dalla particolare locazione di un palazzo; storie che molto spesso hanno conosciuto un classicissimo “ingigantimento” col trascorrere dei secoli, ma che continuano ad affascinare perché simbolo eterno di una comunità vissuta e viva allo stesso tempo. Ecco, una di quelle meravigliose chicche della tradizione romana riguarda un pontefice, Papa Sisto V.
Felice di Peretto da Montalto, poi semplicemente Felice Peretti, varcò il soglio pontificio nel 1585 e mantenne la tiara papale fino al 1590. In soli cinque anni, il Papa marchigiano si contraddistinse per un attività riformatrice a più livelli. L’ex inquisitore di Venezia, tra le altre cose, cercò in ogni modo di accentrare il potere politico ma soprattutto di far quadrare i conti delle casse apostoliche. Per farlo ricorse a numerosi provvedimenti economici abbastanza rigidi (e su questo punto ci torniamo tra poco), vendendo alcuni uffici, facendo ricorso a prestiti pubblici e premendo sulla severità doganale.
Per via del suo conclamato attivismo politico, economico e urbanistico (sotto il suo pontificato la città capitolina rinacque dal punto di vista viario) Papa Sisto V non passò di certo inosservato tra i membri del ceto popolare romano. Quest’ultimo, secondo una leggenda ancora oggi molto in voga, ebbe modo di saggiare la tenacia pontificia durante un episodio abbastanza buffo e particolare. Mettiamola nei seguenti termini: Papa Peretti non era uno che credeva facilmente ai miracoli. Perciò quando gli giunse voce di un ritratto raffigurante Cristo dal quale sgorgavano lacrime di sangue, volle assistere in prima persona.
Egli dapprima si recò alla periferia di Roma. Notando la grande folla urlante, si avvicinò al ritratto, bagnato effettivamente dal sangue. L’uomo che si presentava come il proprietario del terreno in cui si trovava il quadro, esigeva un pagamento in denaro per la testimonianza del miracolo. Sisto V vide una scaltrezza laddove gli altri vedevano un atto divino e misericordioso. Così il papa prese un’ascia e alzandola al cielo, pronto a scagliare la scure, pronunciò le seguenti parole: “Come Cristo, io ti adoro; come legno, io ti spezzo!”.
Il colpo distrusse il ritratto ma ne rivelò il trucco. Una corda mossa a comando da quell’uomo strizzava una spugna intrisa di sangue. Il pontefice con totale nonchalance condannò il truffatore a morte e ritornò Oltretevere, con la consapevolezza di chi sa di aver fatto la cosa giusta, ma con metodi poco ortodossi. L’episodio entrerà a far parte così tanto dell’immaginario comune che il poeta Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863) sentirà il bisogno di scrivere un famoso sonetto, intitolato “Papa Sisto” (la versione integrale si trova a fine articolo).
Ma io vi ho promesso una seconda chicca ed eccovela qui. A Roma si è soliti dire “mejo ‘n morto dentro casa cchè ‘n marchisciano fori daa porta”. Questo perché Sisto V, durante la sua enorme riforma economica e fiscale, volle circondarsi di fidati ispettori d’origine marchigiana. Egli diffidava dagli esattori locali, rei di essere troppo “buoni” con alcune frange del popolo. Ed ecco che i romani seppero trasformare anche questo episodio in una colonna portante della vulgata popolare.
“Fra ttutti quelli c’hanno avuto er posto
de vicarj de Dio, nun z’è mai visto
un papa rugantino, un papa tosto,
un papa matto uguale a Ppapa Sisto.
E nun zolo è da dì che dassi er pisto
a chiunqu’omo che j’annava accosto,
ma nu la perdunò neppur’a Cristo,
e nemmanco lo roppe d’anniscosto.
Aringrazziam’Iddio c’adesso er guasto
nun pò ssuccede ppiù che vienghi un fusto
d’arimette la Cchiesa in quel’incrasto.
Perché nun ce pò èsse tanto presto
un antro papa che je piji er gusto
de mèttese pe nome Sisto Sesto.“