Al sorgere del sole del 7 novembre 1910 (secondo il calendario giuliano), dopo una notte di delirio in cui gridò a più riprese di voler fuggire nonostante il fisico non lo permettesse, Lev Tolstoj entrò in coma. All’interno del palazzone ferroviario di Astàpovo – Oblast’ di Lipeck – i familiari dell’illustre genio russo non se le mandano a dire. Insulti, imprecazioni, astio reciproco; un caos non degno del momento. La vita di Tolstoj è agli sgoccioli e tutto attorno al suo capezzale sembra deflagrare. Ma forse è questa la fine più adatta per un personaggio del genere…
Per comprendere meglio quello che in molti hanno definito “il primo reality della storia” – ovviamente a causa dell’esercito di giornalisti, informatori e troupe cinematografiche – dobbiamo fornire un po’ di contesto sulla vita familiare di Tolstoj. Sposatosi nel 1862 con Sofja Bers, figlia di un noto medico russo, il 34enne Lev è entusiasta. Sofja è una ragazza intelligente, sveglia, devota, forse anche troppo paziente. Ma il matrimonio non è mai stato rose e fiori, i coniugi lo capiscono già dopo qualche mese.
Nella residenza di Jasnaja Poljana, troppo lontana dalla vivace Mosca, Sofja non si sente a suo agio e non la si può biasimare per questo: all’interno risiede una serva con la quale Lev ha avuto un trascorso, un trascorso che ha portato alla nascita di un figlio (inizialmente non riconosciuto, poi riabilitato in giovane età). Il comportamento dello scrittore poi non è d’aiuto. Eclettico, vivace da un punto di vista sociale e quindi perennemente controcorrente; un anticonformismo (che si riflette sulle sue magnifiche opere) che inimica Tolstoj e la sua famiglia all’aristocrazia zarista, ai potenti di Russia, ai vertici dell’esercito. Eppure Sofja non è accecata da questa insofferenza, restando la prima lettrice/sostenitrice degli scritti del marito.
Da un punto di vista strettamente “biologico” e carnale, il matrimonio è proficuo: fino al 1888 Lev e Sofja potranno dirsi papà e mamma ben 13 volte. Purtroppo solamente 7 dei figli sopravviveranno al padre. Tra questi ci fu l’amatissima e odiatissima (dal padre, dalla madre) Aleksandra, centrale negli ultimi momenti di vita dell’autore. I primi anni del nuovo secolo sono quelli più difficili per l’integrità della vita di coppia. Si susseguono fughe, scandali amorosi, addirittura tentativi di suicidio. Ma il vero punto di rottura si ha nel 1910. Tolstoj, seguendo la sua filosofia di vita, decide di scrivere il suo testamento lasciando all’intero genere umano i diritti d’autore delle sue opere. La traduzione, nel caso servisse, è la seguente: alla famiglia non spetta neppure uno spicciolo da quell’inestimabile tesoro.
A ciò si aggiungono delle motivazioni religiose che vorremmo approfondire, ma che riassumeremo in modo barbaro. Soprattutto negli ultimi anni di vita, Tolstoj si è dedicato spiritualmente ad un particolare misticismo professante la non-violenza, la castità (predicava bene, ma non razzolava con altrettanta determinazione) e la diffidenza nel progresso. Questa svolta spirituale rese ancor più insofferente Sofja, la quale inizierà a spiare di nascosto il marito. Lev se ne accorse, giudicandolo un affronto troppo grande. Così tra il 27 e il 28 ottobre 1910, accompagnato dal fidato dottor Makovitskij, si involò verso la sua ultima fuga. Una rotta abbastanza rocambolesca, che lo condusse prima a Optina, in Crimea, e poi verso la Romania (o il Caucaso).
Sofja, seguita da tutti i figli – tranne Aleksandra che già si trovava con il padre – braccò un malato Tolstoj nella stazione di Astàpovo. Sì, perché lo scrittore russo, ormai 82enne, si beccò una polmonite non proprio leggera, che lo costrinse ad un ricovero di fortuna. Allettato, la famiglia lo raggiunse, insieme all’intero mondo giornalistico interessato alla speculazione sulla morte di un personaggio così rinomato. E mentre Lev Tolstoj si spegneva la mattina del 7 novembre 1910, tutti litigavano per la sua eredità. Nessuno sapeva che quell’uomo aveva lasciato già tantissimo al mondo e come un abilissimo prestigiatore concluse il suo numero con una fuga da una realtà che non voleva più accettare. Quindi lasciò spegnere i riflettori, fece calare il sipario: morì così un uomo che se la moglie avesse potuto uccidere e ricreare esattamente allo stesso modo, lo avrebbe fatto senza pensarci due volte (confessione del 16 dicembre 1862).