Nella basilica di San Pietro in Ciel d’Oro, bellissima chiesa di Pavia del VII-VIII secolo, sono custodite le sacre spoglie di San Severino Boezio, filosofo, teologo e consigliere del re ostrogoto Teodorico. Non uno qualunque, o almeno tale non era per Dante, che nel canto X del Paradiso lo encomia come anima santa. L’investitura dantesca rende la basilica pavese un luogo speciale, in cui si respira una densa aria di sacralità. Come nel più classico dei paradossi italiani, il santo martire condivide il luogo di sepoltura con tanti personaggi storici che in quanto a rispettabilità e religioso ossequio lasciarono a desiderare. Tra questi spicca Facino Cane, nato Bonifacio. Il capitano di ventura che tra la seconda metà del Trecento e la prima del Quattrocento mise a ferro e fuoco l’Italia centro-settentrionale. Le sue gesta, documentate solo in parte, meritano quantomeno un accenno.
Quello che sappiamo e che possiamo indicare – con un certo grado di sicurezza – come storicamente attendibile proviene in larga parte dalle carte dell’Archivio di Stato di Torino (Conti delle castellanie) e dalle varie corrispondenze presenti nelle cancellerie delle più grandi città italiane del centro nord. Un’occhiata veloce a queste fonti dal valore eccezionale permettono di farsi un’idea sulla trentennale carriera militare e politica di Facino Cane. Il flagello del nord come qualcuno ha osato affermare (non senza criterio, c’è da dirlo).
Nato a Casale Monferrato nel 1360, l’ultimo rampollo della famiglia Cane, o meglio, di un ramo cadetto della suddetta casata, coltivò fin da ragazzo una premonitrice passione per le armi. L’ambizione e la determinazione che lo contraddistinguevano rispetto ai suoi congiunti lo spinsero su una strada a dire il vero scontata: la vita mercenaria. I parenti di Facino prestavano il loro servizio ai Visconti di Milano già da qualche decennio. Perciò non fu affatto complicato per lui entrare nell’orbita viscontea. Il battesimo di fuoco (di cui abbiamo testimonianza scritta) per Facino Cane come condottiero fu lo scontro tra l’allora governatore del Marchesato del Monferrato, Ottone IV di Brunswick-Grubenhagen, e il re di Napoli Carlo III d’Angiò-Durazzo nel 1382.
All’età di 26 anni si ritrovò a combattere per i Della Scala signori di Verona contro i Carraresi di Padova. Catturato da quest’ultimi a Castagnaro (11 marzo 1387), voltò bandiera e servì la signoria padovana per il restante anno. Facino Cane stava facendo esperienza nei tumultuosi e caotici campi di battaglia centro-settentrionali. Laddove i poli di potere si giocavano l’egemonia regionale, o di converso, la maldisposta sottomissione. Esperienza che gli tornò utile nel sessennio 1391-1397. Anni in cui prestò i suoi servigi e tenne occupati i suoi uomini (parliamo di un bel contingente per l’epoca, di circa 400 mercenari) per conto del marchese del Monferrato. Invasioni, saccheggi, scontri minori ma costanti, ripetuti capovolgimenti che lo arricchirono e che contribuirono a costruire una nomea poco lusinghiera che gli sopravvisse per secoli.
Eri un signorotto di inizio XV secolo in cerca di gloria? Chiamavi Facino Cane e lasciavi fare a lui il lavoro sporco. Certo, questo spesso comportava crudeltà ed empietà. Come quando tornò nella sua Casale, terrorizzando i compaesani per otto giorni e autoproclamandosi signore del borgo dal balcone di un malconcio Palatium Vetus. Facino era duro con tutti, forse per una sorta di rivalsa sul suo status sociale. Per un più lauto compenso abbandonò il Piemonte, già pesantemente afflitto, e approdò in terra lombarda. Come detto, qui servì i Visconti, giungendo a compiere imprese di primaria importanza. Si tenga a mente l’assoggettamento di Bologna alla signoria viscontea, per la quale nel 1403 ne ottenne il governo come remunerazione. Dunque dietro l’armatura dello spietato capitano di ventura si celava la veste dell’abile uomo politico.
Anche per via di questa risolutezza “diplomatica” (per quanto accostare il termine “diplomazia” a Facino Cane sia ossimorico) in poco tempo il condottiero si ritrovò a reggere le redini, se non nominalmente, almeno nell’atto pratico, di un numero importante di territori. Non contemporaneamente, ma Facino Cane poté dirsi nel corso della sua carriera signore di città del calibro di Alessandria, Como, Novara, Pavia, Piacenza e ancora Tortona, Valenza, Varese, Vercelli.
Vista con questa prospettiva, quella di Facino Cane sembra un’ascesa irrefrenabile. In parte è vero, ma non dimentichiamo il contesto generale. Con la perdita di Gian Galeazzo Visconti (1351-1402) i domini della casata milanese caddero in un subbuglio senza pari. A sfruttare la condizione semi-anarchica affermatasi nei feudi viscontei furono gli ex-capitani di ventura che Gian Galeazzo assunse. Vedasi Ottobuono Terzi, Pandolfo Malatesta, non ultimo Facino Cane.
Come dice Francesco Somaini in Geografie politiche italiane tra Medioevo e Rinascimento: “trassero indubbiamente profitto dalla situazione di sbandamento generale per avvalersi con finalità proprie delle loro forze militari, tentando di impadronirsi di singole città e territori al fine di costruire delle autonome signorie personali”.
Ironico poi notare i risvolti di questa azione predatoria. Facino Cane, il più bramoso dei comandanti mercenari di Gian Galeazzo, in poche parole mise una toppa (per fini propri) a quel processo di dissoluzione innescatosi nel 1402, agevolando l’operato di Filippo Maria Visconti che mirava allo stesso obiettivo finale, ma per il bene della stirpe e dei suoi domini. A riprova di ciò, Filippo Maria volle consolidare il personale intento riunificatore ottenendo la mano della vedova del Cane, Beatrice. Il matrimonio non andò a buon fine, ma questo ci fa capire ancora di più come l’eredità del condottiero originario di Casale Monferrato fosse di notevole centralità nelle dinamiche di potere dell’Italia primo quattrocentesca.
Non le armi, non la sedizione, ma la gotta poté permettersi il lusso di togliere la vita a Facino Cane. Un attacco lo colpì durante uno dei suoi ordinari assedi, per l’occasione quello di Bergamo nel 1412. Allettato nel castello di Pavia, vi morì il 16 maggio di quell’anno. Si attesero svariati giorni prima di tumulare il corpo del temibile condottiero nella basilica di San Pietro in Ciel d’Oro.
Per concludere, mi affido nuovamente alle parole di Somaini il quale con grande lucidità riesce a fornire un quadro esaustivo sulla decadenza dei capitani di ventura come Facino Cane, decretata dall’instaurarsi del cosiddetto sistema degli Stati italiani: “[…] esso riuscì a rendere in poco tempo inoffensiva la minaccia dei ‘condottieri senza stato’. Costoro erano capitani spesso anche di gran fama, che non si erano rassegnati a porsi stabilmente al servizio di un’unica potenza. Forti dei loro eserciti privati, organizzati non di rado, con molta efficienza, aspiravano in genere a divenire i signori incontrastati di qualche territorio”.