Cinque mesi e poco più. Ecco quanto durò l’esperienza repubblicana nella Napoli di fine XVIII secolo. Mesi in cui accadde di tutto e durante i quali il popolo partenopeo conobbe un saliscendi di emozioni, talvolta contrastanti. Prima il tradimento, poi la confusione, la lotta, la rivoluzione e infine una sperimentale sensazione di linearità. Ma riassumere il significato della Repubblica Napoletana con una sequela di parole vuote è quasi offensivo. Cerchiamo quindi di addentrarci nell’atmosfera di quei 5 mesi, e poco più.
Il contesto appariva già abbastanza chiaro nel mese di dicembre del 1798. Il re Ferdinando IV, preso atto dell’inarrestabile avanzata delle truppe francesi, si imbarcò di nascosto alla volta di Palermo (non dimenticandosi però del tesoro della corona, eh), lasciando il governo della città di Napoli al vicario generale il conte Francesco Pignatelli. Questi firmò con il generale Championnet, in data 12 gennaio 1799, un armistizio non proprio “leggero” per i napoletani, viste le condizioni proibitive che avrebbero “dissanguato” la città. Alla notizia, il popolo insorse.
In una situazione di completo caos per le strade e non solo, si ritagliarono un ruolo non indifferente i lazzari, ovvero i giovani del ceto basso, che mal sopportavano l’entrata del nemico francese entro le mura della città. Così i lazzari, intenzionati a difendere Napoli, si recarono nelle carceri, liberando eventuali capi militari e braccia armate utili al loro scopo. Tuttavia in quei giorni la sollevazione non fu esclusiva dei lazzari, ma anche di tutti coloro che, mossi da ideali repubblicani e rivoluzionari, vedevano adesso l’opportunità di insorgere e costituire una nuova forma di governo, antitetica all’oppressione monarchica. I cosiddetti “giacobini” uscirono allo stesso modo dalle carceri, ponendosi al fianco dei francesi.
I giorni di metà gennaio trascorsero nella violenza e nella lotta senza quartiere. Anche il vicario generale, il principe Pignatelli, se la diede a gambe (travestito da donna). Alla fine l’esercito giacobino sbaragliò gli ultimi lazzari arroccati a Castel Sant’Elmo e sul bastione issarono una bandiera di fortuna, dai netti colori blu, giallo e rosso. Il 23 gennaio nacque la Repubblica Napoletana, alla guida della quale si pose un consiglio di bravi giuristi, ma tutt’altro che eccellenti politici, parafrasando le parole di Benedetto Croce. Questo consiglio ce la mise tutta per cancellare le tracce del vecchio regime, incontrando più di qualche difficoltà.
In maggio le truppe di Championnet lasciarono la città. Qualcuno esultò. La fazione avversa alla repubblica non impiegò troppo tempo a ricomporsi. Il re borbonico, dal suo esilio palermitano, consegnò le proprie truppe al cardinale Ruffo, con l’ordine di ribaltare il governo repubblicano. L’esercito della Santa Fede – appunto i sanfedisti – riconquistò terreno in Calabria e in alcuni porti dell’ex regno. Le truppe lealiste giunsero a Napoli in giugno; seguirono battaglie e scontri sanguinosi. I repubblicani, imitando l’esempio popolare dei mesi precedenti, sfruttarono le mura del Castel Sant’Elmo come ultima difesa: capitolarono il 22 giugno 1799.
Terminò quindi il sogno della Repubblica Napoletana. La reazione della corona fu violentissima, tra arresti sommari, esecuzioni indiscriminate, punizioni e torture. I principali volti della repubblica partenopea finirono sul patibolo, ricordiamo: Domenico Cirillo, Francesco Mario Pagano, Oronzo Massa e, insieme a molti altri, l’eroina Eleonora De Fonseca Pimentel. Nessuno poté più gridare tra le tradizionali strade napoletane il motto “Viva la Repubblica, Viva la Libertà, Viva San Gennaro“.