Per migliaia di anni la palma da dattero della Giudea ha rappresentato una fonte inesauribile di cibo, un refrigerio contro le alte temperature levantine, una pianta dalle conclamate qualità medicinali oltre che un simbolo. E poi giunse Roma, che con la sua forza dirompente stroncò la vita del simbolo dalla foglia pennata, definitivamente, o quasi. Oggi, dopo due millenni di blando anonimato, la palma da dattero risorge e lo fa in grande stile. La sua storia, per quanto possa sembrare frivola (nessuna testimonianza del passato lo è, che sia chiaro), è anche la storia di una terra, di più popoli, di contingenze economiche e militari. Perché non raccontarla?
Le poche fonti giudaiche non bibliche a riguardo testimoniano una vivace presenza della palma da dattero della Giudea negli anni antecedenti alla conquista romana. Fitte foreste di palme torreggiavano fino a 25 metri d’altezza in una zona compresa tra il Mar di Galilea fino alle rive del Mar Morto. L’odierna valle del Giordano era ricoperta per ettari ed ettari di gloriosi esemplari appartenenti alla famiglia delle Arecaceae.
Gli abitanti della regione ne apprezzavano così tanto la presenza da ritenere la pianta un esplicito emblema della buona sorte. Non solo, i suoi frutti, i datteri, simboleggiavano l’abbondanza e la fertilità. Croce e delizia, si potrebbe constatare, perché il valore di questa pianta fu anche e soprattutto la fonte della sua veloce estinzione. Romani ed Ebrei videro i loro rapporti incrinarsi a tal punto da ritenere scontato uno scontro su larga scala in terra giudaica. Roma, che sapeva come per vincere una guerra non servisse solamente la spada, ma anche l’ingegno e la creazione di circostanze favorevoli, iniziò ad eradicare le piante da dattero tanto care alla popolazione locale. La fame, per molti ribelli, sopraggiunse in questo modo.
Forse i legionari calcarono un po’ troppo la mano, perché tra prima, seconda e terza guerra giudaica (quindi dal 66 d.C. al 135 d.C.), di quella florida foresta non se ne vide più traccia. Certo, all’opera dell’uomo si aggiunse anche un mix letale di improvvisa improduttività, carestia e cambiamento climatico. Perciò dal VII secolo in poi la palma da dattero della Giudea divenne un lontano ricordo, come testimoniano arabi e romani d’oriente. Ora, chi avrebbe mai potuto immaginare che sotto il suolo insabbiato di Masada, uno dei teatri bellici più noti nel contesto delle campagne romane nella futura provincia di Palestina, si potesse trovare la chiave per far letteralmente risorgere questa pianta?
Già, perché una ricerca archeologica degli anni ’60, condotta nei pressi della fortezza voluta da Erode il Grande, ha permesso il ritrovamento di un antico barattolo in argilla. Precedentemente sigillato, una volta aperto gli archeologi trovarono dei semi di dattero. L’Università Bar-Ilan di Tel Aviv li ha conservati per quattro decenni, fino al 2005. In quest’anno, la ricercatrice botanica Elaine Solowey ha deciso di piantarne uno, così, per analizzarne l’esito. Incredibile ma vero, da quel seme è nata una Phoenix dactylifera, anche se debole e delicata, almeno durante i primi tempi.
La palma da dattero della Giudea è sopravvissuta, è cresciuta ed oggi ha anche un nome che, dal mio modestissimo punto di vista, è azzeccato come non mai: Matusalemme, il più longevo dei personaggi biblici. Test genetici hanno confermato come effettivamente si tratti della stessa specie creduta estinta e come sia un maschio. Matusalemme non può germogliare e fare frutti, ma può impollinare e permettere che a farlo siano delle femmine. Una palma che collega ed intreccia in modo indissolubile un passato pensato a lungo scomparso ed un presente entusiasmante. Non male per qualche dattero…