Rimini e il Catarismo; città storicamente essenziale per gli equilibri politici e commerciali dell’Italia centro-settentrionale da una parte, un movimento ereticale diffusosi a macchia d’olio in tutta l’Europa medievale dall’altra. Non è difficile immaginare in che modo questi due elementi possano convergere, semmai la domanda è un’altra. Quanto effettivamente l’eterodossia catara, nel suo periodo di massima ascendenza, impattò sulle dinamiche cittadine riminesi? Il mio scopo, per quanto possibile, è fornire una risposta valida ad una questione altrettanto valevole.
In passato trattammo già il tema dei catari (se volete dare un’occhiata, l’articolo è questo) pur restando nella cornice geografica transalpina. Ma il Catarismo, che non nasceva in Francia bensì nei Balcani, attecchì anche in Italia, asservendo alla dottrina un gran numero di individui, tanto di alta quanto di bassa estrazione sociale.
Un veloce rimando al significato di Catarismo prima di presentare il quadro romagnolo. Dobbiamo intendere l’eterodossia in termini dualistici. I seguaci interpretano la fede attraverso la contrapposizione di due forze eguali, tra di esse vi è una distinzione manichea: il Bene, chiaramente rappresentato da Dio, al quale non si può accedere in questa vita ma solo nell’altra (a patto che ci si flagelli per bene e ci si tolga la vita se necessario, il suicidio è considerato come la via maestra per raggiungere l’ascesi). E poi c’è il Male, simboleggiato dal demonio e fonte di totale perdizione spirituale. Credere nel Catarismo significava considerarsi “puri” dinnanzi ad un cattolicesimo corrotto dal potere temporale. Il concetto di purezza è espresso dal nome stesso del movimento. Cathărus è un prestito medievale dal greco καθαρός, “puro”.
Roma non poteva certamente restare con le mani in mano. Si adoperò attivamente per perseguire questi eretici, ora considerati scellerati malviventi e non più semplici peccatori, non più sciocche pecorelle che avevano smarrito la via del Signore. Ad intricare la situazione si aggiunse un fatto non da poco. L’eresia catara godette fin dai primi del XII secolo di notevole considerazione nelle frange del popolo grasso. Il movimento si espanse non tanto per la presa ideologica, quanto più per le donazioni e la protezione politica dei ricchi oramai convertitisi. Il più delle volte (ma non sempre!) quest’ultimi erano gli stessi che mal sopportavano l’intrusione del papa nell’evoluzione amministrativa e politica di matrice municipalista.
Ecco, è questo l’aggancio che ci riconduce a Rimini, Città fra le città catare (affatto subalterna all’eretiche Milano, Verona o Piacenza). L’urbanità romagnola accolse un gran numero di catari entro le proprie mura. Addirittura si costituì un rione esclusivamente abitato da eterodossi catari/patari (divenuti un’unica cosa almeno per il contesto emiliano-romagnolo, come attestano le fonti coeve): per l’appunto Rione Pataro. Nonostante dal 1184 la Chiesa di Roma avesse dichiarato guerra totale all’eresia, in quel di Rimini la repressione non fu che un lontano eco. Erano in troppi e troppo potenti, per farla breve.
Fino alla metà del Duecento i purissimi difensori della dottrina dualista governarono la città e il suo porto. Ed era dallo strategico porto riminese che ci si collegava con i Balcani (da cui tutto era partito…). La ricerca storica tuttavia non riesce ancora oggi ad evidenziare le modalità con le quali l’eresia catara conobbe la sua fine a Rimini. Alcune fonti sostengono come vi sia stata un’azione violenta a conduzione cattolica, in grado di ribaltare gli equilibri interni. Altre parlano di naturale dissoluzione con l’avvento del secolo quattordicesimo, quello in cui la chiesa diede forma concreta all’ancora teorica bolla Ad extirpanda (1252, redatta da Innocenzo IV), implementando il meccanismo della tortura alla preesistente macchina inquisitoriale (anche se non è corretto parlare di Santa Inquisizione o Sant’Uffizio; per quello bisogna attendere Paolo III Farnese e il “contentino” fatto al cardinale Carafa, poi Paolo IV).
Concludo citando l’ultima corrente storiografica per la quale il Catarismo sarebbe stato estirpato pacificamente da Malatesta I Malatesta, detto anche della Penna. Secondo qualche documento di poco successivo al 1248, anno dell’evento, il condottiero e signore malatestiano avrebbe esiliato senza spargimenti di sangue tutti i catari della città. Un estremo atto di bontà, visto che si spense nel novembre del medesimo anno.