Conservata all’Escorial, residenza e pantheon delle teste coronate di Spagna, c’è una lettera firmata Elisabetta Farnese, redatta nel 1731 e dedicata al figlio prediletto Carlos Sebastián de Borbón y Farnesio, per lei semplicemente Carlo. La missiva, di cui riporto qui di seguito un passaggio, non lascia spazio a sottintesi o astruse interpretazioni. Una madre innamorata scriveva: “Muovi verso le Sicilie, le quali alzate a governo libero, saran tue, va’ dunque e vinci, la più bella corona d’Italia t’attende”. Parole al miele per un regno, come quello di Napoli, che da secoli aveva perso il lustro delle origini, un po’ per il malgoverno austriaco e un po’ per il precedente disinteresse spagnolo per quel vicereame ininfluente posto al centro di un mondo vecchio e sorpassato. Nel 1734 Napoli vide ammainarsi lo stendardo asburgico: il diciottenne Carlo di Borbone condusse le proprie truppe alla conquista del regno, insediandosi senza numerazione.
Sì, nessun Carlo VII (o VIII). Don Carlo voleva distinguersi dai predecessori, in particolar modo dagli odiati Asburgo, che quel trono l’avevano detenuto e depredato per 27 anni. Il nuovo sovrano di casa Borbone, capostipite del ramo Borbone-Due Sicilie, oltre a possedere già da qualche anno il Ducato di Parma e Piacenza per volere materno (al quale rinuncerà nei trattati di pace post guerra di successione polacca in cambio del riconoscimento della sua legittimità sulle Due Sicilie) nel ’35 si fece riconoscere rex utriusque Siciliae, con incoronazione solenne a Palermo.
Tanta fu la fiducia sul nuovo corso. Napoli infatti tornò ad essere davvero la capitale di un reame. La vita culturale rifiorì e l’Illuminismo napoletano, a stretto braccetto con quello milanese, rappresentò la colonna portante del pensiero contemporaneo nella penisola. I due regni riuniti nella persona di Carlo di Borbone conobbero un periodo di gran fervore sociale, in cui si affermarono idee e innovazioni di carattere politico, economico, finanziario e commerciale. Un proto-liberismo anglosassone misto al mercantilismo francese, coadiuvati dall’intraprendenza affaristica olandese, fu la ricetta che don Carlo volle assurgere a modello per i suoi domini. Ma per farlo il re comprese di dover restituire qualcosa alla città in cui spiccava la sua corte, o forse il contrario, dover restituire Napoli a quell’elemento che la contraddistingue fin dalla sua ellenica nascita: il mare.
E su questo punto concentrerei la restante narrazione, perché spesso si tende a dimenticare la centralità strategica del mare per le fortune di Napoli. Magari lo si fa in buona fede, dando priorità alla politica estera di Carlo o all’impulso che egli diede alle arti partenopee. Per il mare il primogenito di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese si spese molto ed è giusto riconoscerglielo. Con animo e volontà il sovrano cercò di ringiovanire un apparato statuale vetusto, intriso di particolarismo clerico/baronale. La questione economica poteva risolversi solo ed esclusivamente concentrandosi su un’avveduta politica marittima. Così fece il Borbone-Due Sicilie.
L’intenzione fu di affermare il predominio sull’area mediterranea di competenza, perciò scacciando la minaccia barbaresca. Il Regno di Napoli acquistò dallo Stato Pontificio una partita di nuove galee in costruzione presso Civitavecchia. Inaugurò l’Accademia dei Guarda Stendardi e la Scuola dei Grumetti, rispettivamente per la formazione di ufficiali e piloti. Nel 1739 venne definita la novella Real Armata di Mare: galee, sciabecchi e feluconi a protezione di Adriatico, Ionio e Tirreno. Pur non avendo nulla a che fare con i numeri delle più forti flotte europee dell’epoca, il coraggioso naviglio napoletano riportò fin da subito vittorie contro corsari barbareschi tripolitani e tunisini.
Don Carlo procedette poi a “nazionalizzare” (termine incauto, ma rende bene l’idea) l’import-export via mare. In parole povere il potere regio si appropriò delle prerogative contrattuali in accordo con gli agenti di commercio. L’editto giustificava così la decisa presa di posizione: “Saranno da Noi stabilite e pubblicate tutte le leggi appartenenti alla buona e utile navigazione come al felice commercio che per mille vincoli, per poca o niuna sicurezza, per mare e per terra, era scarso e inceppato”.
Ingegneri qualificati potenziarono il porto napoletano, aumentando la capienza e riorganizzando gli spazi per le dogane, le scuole nautiche, i moli e l’arsenale. L’amministrazione borbonica si impegnò a riqualificare gli scali di Sicilia, Puglia e Calabria, puntualmente insabbiati per la scarsa manutenzione. Al contempo vennero varati i primi vascelli d’alto bordo, i quali salpavano da coste sempre più fortificate. L’altra capitale, Palermo, conobbe altresì qualche riammodernamento infrastrutturale, anche se non al livello di Napoli. L’attivismo di Carlo si esplicò anche per vie diplomatiche, con la stipula di trattati commerciali con Inghilterra, Olanda, Impero Ottomano, Francia, Svezia e Danimarca. Non furono da meno gli accordi con le forze barbaresche (Algeri, Tripoli e Tunisi).
Allo smacco britannico del 1742 (una squadriglia di navi minacciò di far piovere palle di cannone sul litorale napoletano se Carlo non si fosse pronunciato neutrale nella guerra di successione austriaca) si contrappose una grandissima vittoria della Reale Armata di Mare. Nel 1752 Capitan Pepe (al secolo José Martinez) affondò con quattro feluconi l’ammiraglia del bey di Algeri. Non una nave qualunque, ma il Gran Leone, mostro da 16 cannoni e 230 membri d’equipaggio. Una delle ultime gioie per Carlo di Borbone, il quale lasciò la sua amata Napoli nel 1759 per la corte madrilena. Il neo incoronato re di Spagna salutò amaramente quella città su cui tanto scommise, vincendo il più delle volte. Lasciò il terzogenito Ferdinando sul trono partenopeo, ma “l’ora più bella per Napoli”, durata mezzo cinquantennio, era passata veloce come uno sciabecco a vele spiegate.