Promessa mantenuta: oggi si parla di quel frangente storico, corrispondente al pieno Medioevo, durante il quale buona parte della penisola italiana rifiutò ostinatamente l’uso e la diffusione delle forchette, strumento diabolico e ingannatore. Un’anticipazione dell’argomento è presente nell’articolo su alcuni dei divieti più assurdi mai introdotti nella storia, ma qui si vuole esaminare la vicenda in tutte le sue possibili sfaccettature. Dunque chiediamoci: come mai l’Italia arrivò ad odiare le forchette?
La posata non spuntò fuori dal nulla ai primordi dell’XI secolo. Forse fu un’invenzione romana, anche se isolata ed essenzialmente sconosciuta alle grandi masse. Nata in un contesto certamente mediterraneo, la forchetta non ebbe successo in Occidente, bensì in Oriente. All’incirca nel V secolo dalle parti di Costantinopoli i più facoltosi aristocratici avevano il privilegio di infilzare il cibo con questo arnese a tre punte. La più limpida testimonianza di ciò è rappresentata da una forchetta custodita dal Metropolitan Museum di New York, in qualità di reperto archeologico.
Addirittura i “rozzi” e “sgarbati” Longobardi (le virgolette stanno ad indicare un pregiudizio storicamente smentito) conoscevano l’arte del mangiare con le forchette. Chiaramente anche per loro si trattava di un esotico strumento, importato dall’ammirabile cultura bizantina. Eppure il primo episodio in cui la forchetta sale agli onori della cronaca è dell’estate del 1004. Chi ha letto il pezzo sugli assurdi divieti di cui vi parlavo pocanzi, in parte già conosce la storia. Per tutti gli altri sarà una curiosa scoperta.
In quei primi anni di XI secolo Venezia e Bisanzio si erano avvicinate moltissimo. Riflesso di ciò fu il matrimonio tra Giovanni Orseolo e Maria Argira. Lui figlio del doge Pietro II Orseolo e per breve tempo coreggente del dogato; lei principessa bizantina, membro della nobilissima dinastia degli Argiro (che esprimerà un imperatore, Romano III, di cui la principessa era sorella) e stretta parente del basileus Basilio II. A fare da sfondo alla celebrazione delle nozze fu la città bagnata dalle placide acque del Bosforo, ma anche Venezia espresse la ferma volontà di festeggiare l’unione.
In laguna tutti vollero assistere al banchetto nuziale, succeduto al rinnovato scambio degli anelli. I patrizi veneziani mangiavano con le mani dai loro strabordanti piatti e brindavano al prospero futuro degli sposi. Pier Damiani, che racconta l’episodio pur non avendolo vissuto direttamente (il futuro vescovo, cardinale e santo nacque nel 1007), ci dice come la principessa romana fosse l’oggetto ultimo di ogni sguardo e argomento principe di ogni possibile dibattito. Eppure lei se ne stava lì, seduta e ferma, distinta nei modi e nelle maniere. Ad un certo punto chiamò a sé la servitù, la quale prontamente le consegnò una custodia ricamata. Da questa la nobile fanciulla estrasse un “pugnale triforcato“, utile per infilzare il cibo e portarlo alla bocca con suprema eleganza.
Rimasero tutti col fiato sospeso. Cosa stava facendo Maria? Era forse impazzita? Pier Damiani racconta che i prelati presenti al banchetto condannarono il gesto come eccentrico e snobista. Così facendo – nell’ottica dei critici – la principessa rimarcava una differenza di status fra gli umili veneziani, pescatori e commercianti che si cibavano avvalendosi delle mani, e i romei, eredi di una superiore raffinatezza.
Il clero, maggiormente interessato alla difesa dei valori tradizionali e alla semplicità dei costumi, biasimò per primo l’utilizzo delle forchette. Diavolerie che solo da Bisanzio potevano provenire (ricordiamo come non fossero chissà quanto amichevoli i rapporti tra la Chiesa di Roma e quella d’Oriente). Gli ecclesiastici più in vista dell’Italia del tempo bollarono le posate come peccaminose. Anche se non vi è alcuna traccia di espliciti divieti giuridici all’utilizzo del piròn, parola veneta sorta dall’assonanza con il termine bizantino “pirouni”, a sua volta nato dal greco antico “peìro” che vuol dire “infilzo”.
Non finisce mica qui l’astio dei veneziani per la forchetta. Un episodio per certi versi simile a quello del 1004 si verifica settant’anni più tardi. Ci troviamo nel 1071: si celebra l’ennesimo matrimonio tra un doge veneziano e una principessa bizantina. Questa volta è il turno di Domenico Selvo e di Teodora Anna Ducaina, sorella dell’imperatore Michele VII. La storia ci è narrata da un cronista d’eccezione, Ludovico Antonio Muratori. Il padre della storiografia italiana ricorda i mille tentativi di Teodora nel voler diffondere in laguna le consuetudini bizantine. Dal trucco alla danza, passando per i vestiti e le forchette. Oh no, ancora loro!
Sì, perché Teodora riuscì ad introdurle tanto nella sua sfarzosa dimora, quanto in quelle dei più altolocati veneziani. È utilissimo a mio parere riportare le parole della storica medievista Chiara Frugoni, la quale osserva come: “Gli uomini di Chiesa ritennero la forchetta strumento di mollezza e perversione diabolica. San Pier Damiani (1007-1072) non ebbe alcuna pietà per la povera principessa bizantina Teodora, andata sposa al doge Domenico Selvo, che usava la forchetta e si circondava di raffinatezze cercando di ingentilire le maniere dell’Occidente. La terribile morte della giovane donna, le cui carni andarono lentamente in gangrena («corpus eius computruit»), è vista come una giusta punizione divina per un così grande peccato”.
Nonostante la palese avversione ecclesiastica, la forchetta iniziò a farsi strada tra gli ambienti aristocratici e altoborghesi. Addirittura divenne spunto di acceso dibattito tra Guelfi e Ghibellini. Sentite questa: i primi sostenevano come fosse più adeguato posizionarla alla destra del piatto, i secondi ribattevano collocandola in orizzontale poco sopra la stoviglia (a mo’ delle posate da frutta).
Con il proseguire delle decadi, si iniziò a sdoganare progressivamente l’utensile. Alla fine del Trecento tutti sapevano cosa fosse una forchetta, anche se in ambito ecclesiastico il suo utilizzo restò un tabù per lungo, lunghissimo tempo ancora. Il novelliere Franco Sacchetti (1332-1400) spiega con animosità l’abitudine di un tale Noddo che “comincia a raguzzare i maccheroni, avviluppa e caccia giù, e n’avea già mandati sei bocconi giù, che Giovanni avea ancora il primo bocone in su la forchetta…”.
Anche fuori dall’Italia, più o meno nello stesso periodo, la forchetta prese il sopravvento presso i ceti più avvantaggiati e benestanti. Alla corte di Carlo V di Francia ogniqualvolta si organizzava un banchetto, il re – e il re soltanto – mangiava con la sua forchetta d’oro. Oltremanica, nei Racconti di Canterbury, Madame Eglantine sfoggia tutte le sue abilità forchetta alla mano. L’autore elogia la classe con la quale la fanciulla porta sulle sue labbra il cibo infilzato, senza “intingere dita nella salsa”.
Ciò non deve tuttavia distorcere il quadro d’insieme. Ancora nel XV secolo l’uso delle forchette non era scontato e anzi appariva più come una nobile trasgressione. Nel Cinquecento Carlo V d’Asburgo, che per intenderci era quanto di più vicino a un dio in terra (visto il potere concentrato nella sua persona), possedeva una collezione di forchette di fino, ma non era solito avvalersene.
Con gli aneddoti si potrebbe andare avanti fino all’età contemporanea, ma uscirei fuori dai limiti categoricamente imposti dall’argomento. Quel primo gran rifiuto della forchetta che si fece all’alba dell’XI secolo ci ricorda una cosa nello specifico. Nella storia i costumi alimentari sono sempre stati intrecciati alle questioni morali, religiose e, più in generale, culturali. La forchetta non esula da questo discorso che è tanto vecchio quanto il mondo.