Di storie sulla schiavitù in America ne abbiamo ascoltate e lette molte, alcune anche riportate, come quella della signora Freeman, ma la vicenda di Abdul-Rahman ibn Ibrahima Sori è qualcosa di sensazionale. Non siamo gli unici a pensarlo, visto che al tempo in cui si svolgono i fatti, la sua particolare posizione divenne di interesse internazionale, tanto da coinvolgere ambascerie e segretariati nazionali. Partiamo dall’origine.
Il Principe nasce nel 1762 a Timbo, capitale della confederazione islamica di Fouta Jallon, ed è figlio del governatore Ibrahima Sori. Come tale, conosce un’educazione a modo, imparando ben presto l’inglese, l’arabo e diverse altre lingue africane. Nel 1778, quindi a 16 anni, è a capo di un cospicuo contingente militare (circa 2.000 uomini) a difesa della costa occidentale africana, più o meno all’altezza dell’odierna Guinea. Qualcosa però va storto – anche se non sappiamo esattamente cosa – e l’uomo finisce vittima del rapimento da parte di alcuni gruppi organizzati, anch’essi africani. Il loro lavoro è semplice: rapire uomini e venderli come schiavi ai negrieri. Come da copione, Ibrahima Ibn Sori segue l’iter, finendo in America, Mississippi per l’esattezza.
Nell’allora dominio spagnolo, lo acquista un proprietario terriero di Natchez, di cui conosciamo solo il cognome, Foster. Sori è colto e cerca di farlo notare, asserendo come il suo sia sangue reale. Il proprietario della piantagione – la quale tra l’altro non è chissà quanto remunerativa – crede e non crede a quelle parole. Non solo, l’uomo inizia a chiamare il povero Sori con l’appellativo Prince, il Principe per l’appunto. Sori tentò la fuga, ma ben presto tornò sui suoi passi, capendo come la sopravvivenza sarebbe stata più semplice se avesse assecondato il sistema. Foster gestisce sì la piantagione, ma non capisce nulla di cotone, a differenza del Principe, che di piantagioni di cotone ne aveva viste fin troppe.
Ben presto Foster si rende conto di quanto l’uomo sia indispensabile per un’ottimale produttività della piantagione, così lo premia con una parziale libertà (pur mantenendone la formale proprietà, in quanto padrone). Sori si sposa, diventa per ben nove volte padre e continua la sua ordinaria esistenza, fino a quando un evento non lo smuove nel profondo dell’animo. Incontra un medico britannico che, incredibile ma vero, è in debito d’onore con la sua famiglia, quella in Africa. Sì, perché l’uomo naufragò dalle parti del Fouta Jallon e i familiari di Ibrahima Sori fecero di tutto per salvarlo. Il medico, di nome John Cox, vuole sdebitarsi e per farlo impugna la causa sulla liberazione del Principe. In questo momento la vicenda di Sori diviene di dominio pubblico.
Fino al 1816, anno della sua morte, Cox fa di tutto per spaccare metaforicamente le catene della schiavitù di Sori. Non ci riuscirà direttamente, ma farà abbastanza per permetterlo. Il Sultano del Marocco, Abd al-Rahman, si mette in contatto con il segretario di stato americano Henry Clay. Chiede la liberazione di quel Sori che per molti era un “moro” e non un discendente dell’Africa nera. Un’incomprensione che salva la vita del Principe ma non della sua famiglia. Foster rompe il vincolo di schiavitù ma ad una sola condizione: l’uomo deve tornare da dove è venuto. Sori accetta a malincuore, portando con sé solo la moglie e due figli. Partecipa all’accordo l’American Colonization Society (di cui vi abbiamo già parlato); questa individua nella Liberia il luogo perfetto per il rimpatrio.
Il 18 marzo del 1829 Abdul-Rahman ibn Ibrahima Sori, dopo 40 anni di schiavitù, può dirsi libero. Una sensazione che durerà poco, troppo poco, perché il Principe si spegne quattro mesi dopo il suo arrivo a Monrovia. Vi lasciamo con una chicca: l’American Colonization Society accettò il trasporto di Sori in Liberia in cambio dell’impegno di questi nell’esportare il Vangelo in terra d’Africa. Peccato che Sori fu per tutta la vita un convinto fedele islamico. Perciò accettò la richiesta promettendo di scrivere qualche preghiera cristiana in arabo, in realtà si scoprì che quei versi corrispondevano alla trascrizione del primo capitolo del Corano.