Jean Dubuffet nel secondo dopoguerra coniava il termine “Art Brut” per indicare un tipo di arte libero da ogni vincolo convenzionale, una forma d’espressione senza pretese, talvolta un’arte grezza, spontanea. Art Brut fu quella dei vari autodidatti, dei prigionieri o, come nel caso di Oreste Nannetti, degli internati psichiatrici. Oggi voglio raccontarvi la sua storia, e nello specifico la storia della sua vena artistica, non del tutto interpretata ma già fonte di ammirazione a livello internazionale.
Ferdinando Nannetti (Oreste sarà il nome che egli si attribuì solo in seguito) nasce a Roma, il giorno di capodanno del 1927. Suo padre non esiste, al momento del parto è già un fantasma del passato, un passato ignoto. E tanto chiaro il trascorso di Oreste non è. Si sa come all’età di 7 anni è accudito da un’opera di carità; come a 10 anni inizi a chiamare casa una struttura in cui ci finiscono gli affetti da problemi psichici. Ma le sfortune sono anche fisiche. Un ospedale ricovererà Oreste per la spondilite, una forma d’artrite autoimmune e genetica. Torniamo a sapere qualcosa del ragazzo solamente nel 1948, quando verrà messo dietro le sbarre per oltraggio a pubblico ufficiale.
La perizia psichiatrica lo dichiarerà “mentalmente insano” e per il giovane Oreste inizieranno gli anni del manicomio. La collocazione definitiva, dopo un tour romano poco ammaliante, sarà quella dell’Ospedale psichiatrico di Volterra, nel 1958. Da quel posto Oreste Nannetti esce solo nel momento della dismissione, avvenuta definitivamente nei primi anni ’70. Egli resterà a Volterra, presso una clinica, fino al giorno della sua morte, il 24 novembre 1994. Ma una biografia del genere è volutamente scialba, perché priva del tratto saliente di Oreste Nannetti. Durante gli anni dell’internamento, Oreste iniziò a incidere sull’intonaco del muro esterno appartenente al padiglione “Fermi”.
Incidere per comunicare, visto che a parole Oreste non era particolarmente bravo. Con quegli altri pazienti il ragazzo di Roma non voleva avere nulla a che fare. Troppo litigiosi, troppo rumorosi. Man mano, graffiando quel muro, l’uomo diede vita a due murales separati di dimensioni imponenti. Il primo, 180 metri di lunghezza per 2 (in media) di altezza; il secondo, 102 metri in lunghezza per una ventina di centimetri in altezza. Ad una vista poco attenta, le incisioni possono sembrare scoordinate, slegate da un rigido filo narrativo. In realtà quelli sono cicli di immagini che vogliono raccontare una storia, seppur contorta e in parte ancora da interpretare.
Firmandosi NOF4 (forse “Nannetti Oreste Ferdinando”, forse “Nucleare Orientale Francese”, dove il 4 stava per il numero di matricola all’interno dell’ospedale), l’uomo raccontò, anzi, racconta tramite raffigurazioni apparentemente confuse tutto quello che gli passava per la testa. Comunicazioni aliene, contatti paranormali, scene di ordinaria quotidianità, la ricorrenza della morte, il desiderio di avere una famiglia. Cose dell’atro mondo insomma, ma giustamente, visto che il mondo nel quale viveva non lo capiva, non voleva capirlo. Dal 1978 la sua Arte Grezza iniziò a diventare oggetto d’interesse mondiale, anche grazie alle interpretazioni indicative fornite dall’infermiere Aldo Trafeli, che osservò Nannetti all’opera, studiando quella ricorrenza di segni e figure, dando un senso per quanto possibile a ciò che l’occhio comune difficilmente può tradurre.
Quell’arte era l’espressione di un reale disagio mentale, ma anche di una turbolenza dell’animo. Un animo che, pur considerando tutte le limitazioni che una struttura d’internamento psichiatrico impone, consegnò alla fantasia le chiavi di una libertà duratura, ma non eterna (visto il degrado che lentamente sta “divorando” l’Art Brut di Oreste Nannetti). Oreste parlava, ma non come gli altri, non come ci si aspettava facesse.