Uno degli episodi più assurdi della storia della medicina, e in generale della storia contemporanea, ha per protagonista un chirurgo russo di nome Leonid Ivanovič Rogozov. Non è tanto la sua biografia a renderlo un caso eccezionale, un prode capace di spostare mari e monti e per questo meritevole di essere ricordato negli annali. Nulla di tutto ciò, anche se alcuni tratti del superuomo combaciano con la personalità di Rogozov, uno che a 27 anni è riuscito ad operarsi da solo di appendicectomia, riuscendo anche nell’impresa. Piccolo dettaglio non proprio ininfluente: la storia che vi sto per raccontare risale al 1961 ed è ambientata nella stazione sovietica antartica di Novolazarevskaya.

Il chirurgo vi finì come membro della sesta spedizione antartica sovietica, svoltasi tra il settembre del 1960 e l’ottobre del 1962. Leonid Rogozov, siberiano di nascita, conosceva le aspre condizioni in cui la natura ti costringe a quelle latitudini. Mai e poi mai si sarebbe aspettato di cadere malato e, per non soccombere, di operarsi in completa autonomia. Sì, perché egli fu l’unico medico del team di ricercatori, composto da tredici uomini, ognuno con competenze specifiche diverse ma complementari.
La spedizione aveva come primo e più importante compito quello di costruire la base scientifica nella quale i ricercatori avrebbero operato. Impiegarono due mesi di duro lavoro per completarla: nel febbraio del 1961 tagliarono il cordone inaugurale, giusto in tempo per l’avvenire del terribile inverno antartico, particolarmente brusco sulla Costa della Principessa Astrid, dove la base si trovava e si trova ancora oggi. La nave che li lasciò lì in dicembre sarebbe tornata dodici mesi dopo. La stazione sovietica permanente più vicina distava 1.600 km circa. In caso di difficoltà, l’equipe avrebbe dovuto cavarsela da sola, confinata in un ambiente selvaggio per non dire inospitale.

In aprile le suddette difficoltà che nessuno si augura di riscontrare in quel contesto invece si palesarono in tutta la loro drammatica concretezza. Rogozov iniziò a manifestare sintomi quali febbre, progressiva spossatezza, nausea e dolore addominale. Nel suo diario, che ha aggiornato a cadenza quotidiana per tutta la durata della missione, scrisse il 29 aprile: “Sembra che io abbia l’appendicite. Continuo a mostrarmi tranquillo, perfino a sorridere. Perché spaventare i miei amici? Chi potrebbe essermi di aiuto?”.
Sante parole; chi poteva essergli d’aiuto? Lui, unico dottore in una schiera di meteorologi, meccanici, fisici, biologi e così via. Il giovane medico provò a mettere una toppa al problema, iniziando una terapia antibiotica. Non fece chissà quale effetto, se non attenuare momentaneamente i dolori. Nella mente di Rogozov si profilò un’unica soluzione per salvarsi la vita dall’appendicite acuta: farsi operare, certamente, ma dalle proprie mani.

La sera del 30 aprile fu cerchiata in rosso sul calendario. Leonid Rogozov annotò: “Sto peggiorando. L’ho detto ai compagni. Adesso loro stanno iniziando a togliere tutto quello che non serve dalla mia stanza”. Su direzione del chirurgo, i colleghi – che ricordiamolo, a malapena sapevano brandire ago e filo – procedettero con la preparazione dell’intervento, sistemando strumenti, specchi, camici e cuffie. Eseguita la sterilizzazione, Rogozov assegnò i ruoli. Il meccanico Zinovy Teplinsky, il meteorologo Alexandr Artemev e il direttore della stazione Vladislav Gerbovich sarebbero stati rispettivamente l’assistente per specchio e luci, il ferrista e il sostituto nel caso in cui uno dei due fosse svenuto. Lo stesso Rogozov istruì gli aiutanti sulle iniezioni da dover fare nel probabilissimo caso in cui il medico-paziente avesse perso coscienza.
Nella nottata iniziò l’intervento, unico nella storia della medicina perché nessun’altro, all’infuori di Leonid Ivanovič Rogozov, si è mai operato da solo di appendicectomia. Anche dalle foto dell’accaduto si può notare un dettaglio apparentemente allarmante: il chirurgo non ha i guanti. Questo perché, sebbene egli optò per una posizione al limite tra lo sdraiato e il seduto, così da vedere cosa stava facendo, sapeva che in certi momenti dell’operazione avrebbe fatto esclusivo affidamento sul tatto. Dopo la prima incisione, le mani del medico viaggiarono all’interno del suo addome per buoni 45 minuti prima di individuare la fonte del problema. Non furono 45 minuti di spasso, ma di immensa precarietà, poiché in diverse occasioni Rogozov dovette fermarsi a causa delle vertigini.

La debolezza avanzò rapidamente, scalzando la lucidità. Dopo un’ora circa il dottore si lesionò accidentalmente il cieco, perciò procedette con l’immediata sutura. Finalmente raggiunse l’appendice e, con difficoltà titanica – gli assistenti, tra un conato e l’altro, si convinsero che il giovane chirurgo sarebbe morto di lì a poco – l’estrasse.
“Con orrore mi rendo conto che l’appendice ha una macchia scura alla base. Questo vuol dire che anche un solo altro giorno e si sarebbe rotta e…” – citando testualmente il racconto di Rogozov redatto due settimane più tardi. I punti di sospensione sono riportati nel diario. Dopo due ore di intervento si giunse al successo, ma fu una fatica impressionante. I giorni successivi all’operazione passarono all’insegna della febbre, tuttavia i segni di una lenta ripresa erano sotto gli occhi di tutti. Passarono due settimane e Rogozov tolse i punti, potendo tornare così all’ordinarietà della stazione Novolazarevskaya.

Nel 1962 quella glaciale quotidianità finì, con il gruppo di ricercatori che se ne tornò a Leningrado, poi San Pietroburgo, dove morì il 21 settembre del 2000. Quarant’anni, ecco quanto gli valse quella forma di smisurata audacia umana, perché altrimenti non saprei come definirla.