Da qualche decennio si erano completamente spalancate le porte del Giappone e il mondo Occidentale, contraddistinto dalla tipica bramosia, volle entrare, conoscere, documentare, sfruttare. In piena epoca Meiji, molti fotografi spinti da questa forte curiosità si inoltrarono negli ambienti urbani nipponici, immortalando scene di vita quotidiana. Non pochi scatti – poi colorati a mano secondo la tecnica importata in loco dall’italiano Felice Beato – raffiguravano delle donne ben vestite, ma dietro le sbarre, rinchiuse come se fossero criminali. A scanso di equivoci, quelle erano gabbie della prostituzione e la loro era una realtà tipicamente giapponese.
Sì, tipicamente, perché una regolamentazione in merito esisteva dal primo periodo Tokugawa (1603-1868). Decreti shogunali delimitavano zone della città in cui si sarebbe permesso l’esercizio della prostituzione. Ad esempio, i primi yūkaku (quartieri a luci rosse legali) sorsero a partire dal 1617. Il termine in realtà era generico e indicava tutti gli spazi dedicati all’infuori di Yoshiwara (quartiere di Edo, poi Tokyo), Shimabara (a Kyoto, residenza imperiale) e Shinmachi (nato ad Osaka, uno dei più grandi dell’intero Giappone).
Diverse erano le strade che conducevano alla prostituzione. Si iniziava fin da bambine, perché i genitori vendevano le figlie in cambio di un importante ritorno economico. Prima magari si forniva assistenza alle prostitute più anziane, poi all’età di 13 o 14 anni iniziava l’inferno. Nel caso in cui l’aspetto delle ragazze fosse ritenuto non particolarmente attraente, queste restavano comunque confinate all’interno dei bordelli, servendo come cuoche, pulendo, occupandosi a grosse linee di manutenzione.
Meno comuni, senz’altro, erano i casi in cui si diventata prostitute a tempo determinato. Ciò accadeva alle donne a cui si rinfacciava un comportamento sgradito, ribelle, non consono alla loro posizione sociale e quindi immorale. Ma se ho tirato in ballo le gabbie della prostituzione un motivo ci sarà. Tra le diverse strutture esisteva una specie di accordo economico-commerciale. I proprietari, volenterosi di “stuzzicare” il cliente abituale, erano soliti scambiarsi le prostitute per tempi delineati contrattualmente. Non donne dietro le sbarre, ma oggetti da mettere in mostra come fa un uomo d’affari con la sua mercanzia.
Infernale era la vita all’interno di questi yūkaku. All’ordine del giorno erano casi di aborto imposti con la forza (e conseguenti decessi); malattie veneree (e conseguenti decessi x2); violenze e abusi (avete capito…). Un orrore dal quale difficilmente, o meglio, occasionalmente si poteva sfuggire. Una prostituta poteva oltrepassare il confine del quartiere in caso di perdita di un parente o durante la fioritura primaverile dei ciliegi.
È difficile concludere ogni volta con parole “idonee” ad un argomento simile. Quella linea tra l’infuocato giudizio contemporaneo e la distaccata comprensione estemporanea è come sempre labile, sottilissima, facile da valicare e al contempo complicatissima da ricalcare in modo professionale. L’obiettivo però resta lo stesso: informare su un passato reale, concreto, tangibile. Così vi lascio con una raccolta fotografica che esprime dal mio (e non solo) punto di vista il significato ultimo di quella pratica, tipicamente giapponese, ancora viva, perché raggirante delle apposite leggi anti-prostituzione. Se vi interessa, cliccate qui. Che i vostri occhi possano guidarvi in un’attenta riflessione.