George L. Mosse ne La nazionalizzazione delle masse afferma una grande verità, ovvero che alla base di qualsivoglia strutturazione statale di matrice nazionalistico-autoritaria deve esserci una simbologia alla quale aggrapparsi, un punto di riferimento retorico in grado di amalgamare la collettività, renderla compatta ed unica. Mosse, che nasce tedesco e si naturalizza statunitense, prese in considerazione per le sue pubblicazioni i totalitarismi di destra in voga nell’Europa del primo Novecento. Tuttavia alcuni spunti del saggio storiografico di cui si è detto pocanzi si sposano altrettanto bene con i regimi dittatoriali che riguardarono l’est europeo durante la seconda metà del XX secolo. Una di queste entità, la Repubblica Socialista di Romania, aveva al suo vertice Nicolae Ceaușescu. È la sua storia – legata a doppio filo con quella del paese di cui si proclamò Conducător – che voglio raccontarvi.
Parto da un sondaggio contemporaneo redatto dall’agenzia informativa NSCOP Research e commissionata dall’organo di stampa News.ro. Secondo l’inchiesta (la quale ha interessato un campione di circa 10.000 cittadini rumeni) quasi il 50% degli intervistati ricorda con velata nostalgia i 34 anni di dittatura, pardon, “presidenza” di Ceaușescu. Si stava meglio quando si stava peggio insomma. Ed è qui che entra in gioco quel meraviglioso mondo noto come “psicologia delle masse”. Perché rammentare con piacere quegli anni, convenzionalmente inquadrati tra il 1965 e il 1989? Come giustificare l’atteggiamento odierno nei confronti di un uomo non più criminale, ma “figlio del suo tempo, ingenuo senz’altro, ma non malvagio?” – domande a cui non posso e non voglio trovare una riposta, ma che tuttavia forniscono l’assist perfetto per parlarvi della Romania di quegli anni.
Nicolae nacque nel piccolissimo villaggio rurale di Scornicești il 26 aprile 1918. Il luogo e il contesto della nascita fecero del giovane Ceaușescu un uomo di popolo prima ancora di esserlo biologicamente parlando. Già dalla tarda adolescenza egli maturò un rancore profondo nei confronti dell’ordine costituito, della borghesia al potere, dell’aristocrazia apparentemente intramontabile. Insofferenza per una società sorda dinnanzi al grido del popolo che egli stesso avrebbe pagato, scontando anni di prigionia tra penitenziari e veri e propri campi di concentramento. Fino al 1945, Nicolae Ceaușescu lottò per sopravvivere alla dura detenzione e rese ferrei i principi socialcomunisti di cui, in seguito, si fece principale portatore in terra rumena. Terminata la guerra, la Romania entra nell’orbita dell’URSS. Il nostro uomo diviene prima segretario dell’organizzazione giovanile del Partito Comunista nazionale, poi in nome di una rapida scalata al vertice, assume il ministero dell’agricoltura e la vicedirezione delle forze armate.
Poco più che trentenne, Ceaușescu vestì i panni dell’uomo giusto al posto giusto. Aiutava e non poco il patrocinio del capo di partito Gheorghe Gheorghiu-Dej. Alla morte di quest’ultimo, a succedere come segretario generale fu proprio Nicolae Ceaușescu, nonostante l’inesperienza come funzionario di governo. Un nuovo corso, testimoniato anche dal cambio di nome per il paese, che non si presentava più come Repubblica Popolare Romena ma come Repubblica Socialista di Romania. Quella nazione aveva ora una sua guida, per l’appunto, il Conducător. Il nuovo capo di Stato scombussolò i piani del Cremlino, che vedeva nella Romania un satellite su cui fare perno e nulla più. Ben presto fu evidente a tutti, anche dalle parti di Mosca, l’insolita politica estera rumena. Ceaușescu mise il piede in due scarpe, volendosi presentare come interlocutore tra l’est sovietico e l’occidente a conduzione americana.
Per tutti gli anni ’70 e ’80 la Romania comunista mantenne relazioni diplomatiche con Israele; non troncò il dialogo con la dittatura di Pinochet in Cile; Bucarest ratificò più di un accordo politico, economico e commerciale con la nascente Comunità Europea; partecipò alle Olimpiadi dell’84 a Los Angeles. Un osservatore esterno di quell’epoca avrebbe potuto scambiare la Romania per una seconda esperienza jugoslava, ma nel concreto le cose erano ben più complicate. Anche e soprattutto per l’idea che il Conducător, ex contadino e adesso primo rappresentate del popolo romeno, aveva del suo paese.
In nome della “România mare” (ossia “Grande Romania”) il presidente osteggiava qualunque forma di capitalismo e cercava di silenziare (per quanto possibile) la voce della Chiesa Ortodossa. Non mancavano poi la censura dell’informazione e la completa negazione della libertà di parola. L’opera della temuta Securitate trasformava la realtà cittadina e comunitaria in un qualcosa di molto simile alla DDR. Si provava continua diffidenza, per chiunque, senza eccezioni. D’altronde il pericolo era quello di tacere per sempre, chissà dove e chissà in che modo. Lo statista – per modo di dire – Ceaușescu mirò sempre ed unicamente ad un obiettivo: non tanto accrescere le fortune della Romania, quanto più distaccarla dal giogo sovietico e renderla una potenza regionale autonoma.
L’ambizione politica del Conducător si schiantò irrimediabilmente contro la sua stessa impreparazione economica. Ciò accadde negli anni ’80, deterioranti per il comunismo tutto, non solo quello rumeno. Per risanare il debito pubblico il presidente Ceaușescu condannò alla fame gran parte del suo paese. Contro i suoi stessi consulenti, egli decretò la cessazione di ogni forma di importazione e al contempo favorì l’esportazione della maggior parte della produzione agricola nazionale. Sì, è vero, la Romania di quegli anni divenne il primo paese nella storia contemporanea a potersi dire, secondo un basso gergo economichese, “in avanzo” (ovvero avere un saldo positivo nella bilancia dei pagamenti) ma ad un costo altissimo. Tra il 1982 e il 1989 nel paese si soffrirono gli stenti, mentre gli organi governativi promettevano un avvenire di benessere e agiatezza.
In questa sede ho volutamente omesso il ruolo che ebbe la moglie di Ceaușescu, Elena, nelle scelte del marito. La first lady romena fu, al pari del Conducător, il fattore cardine della decadenza del paese, che si materializzò in tutta la sua tragica violenza nel 1989. Su Elena Ceaușescu, nata Lenuța Petrescu, vorrei dedicare un approfondimento nel prossimo futuro, perché senza conoscere il trascorso di questa donna non si può comprendere gran parte dell’operato sociale ed istituzionale del presidente.
Tornando a noi, dove eravamo rimasti? Ah sì, fame e povertà dilagante. Un paradosso, oserebbe dire qualcuno, dal momento che negli stessi anni gli architetti romeni, coordinati da Anca Petrescu, ergevano il secondo palazzo più grande al mondo per estensione e il terzo per volume. Uno schiaffo all’indigenza chiamato “Casa del Popolo” (Casa Poporului). 350.000 m² di marmo, cristalli, vetri, acciaio e bronzo. Nella lista delle follie andrebbe certamente annoverata la Transfăgărășan, 90 km di strada a zig-zag voluta al confine con la Moldavia. Il motivo? Il timore di Ceaușescu di un’invasione sovietica da nord. La volontaria sotto-infrastrutturazione del settentrione romeno fu solo una delle sconclusionate decisioni del vertice. Le lancette della rivoluzione ruotavano vorticosamente: arrivava il 1989.
Prima venne isolato dal partito, con la Lettera dei Sei. Poi la stessa popolazione, agitata da fattori esterni (tanto occidentali, leggasi CIA – quanto orientali, KGB), si rivoltò contro quella guida fasulla, traditrice della rivoluzione. Alle proteste di piazza, alcune anche plateali e intrise di sangue (Timișoara e Bucarest), seguì l’azione concreta. Elena e Nicolae finirono agli arresti dopo aver fallito un tentativo di fuga. Un processo popolare durato pochissimo precedette la messa in schiera dei coniugi e la fucilazione. Era il 25 dicembre del 1989. Quel Natale rappresentò un punto d’arrivo per la Romania tutta, un momento di svolta. Da allora Ceaușescu, o meglio, la memoria collettiva sul suo conto, ha subito una progressiva rivalutazione. Tutto si può dire, su molto si può speculare, ma non chiamatelo guida, non chiamatelo Conducător.