Ultimo capitolo dedicato a questa miniserie di quattro episodi in cui, chissà con quale esito, ho cercato di delineare un’evoluzione a tutto tondo del cecchino, non solo nella sua veste fisica ma anche nella sua concezione, nell’addestramento e nella dotazione. Per quest’ultimo appuntamento ho scelto quattro scenari bellici differenti nel tempo e nello spazio, accomunati da un singolo aspetto: una parziale reinterpretazione in chiave moderna del tiratore scelto. Con gli occhi dell’osservatore partecipante (Malinowski scelgo te!) immergiamoci tra le afose giungle vietnamite, poggiamo il piede sulla sabbiosa banchina coreana, corriamo in una neppure troppo isolata stradina di Belfast o ripariamoci, perché dalla sommità di quel palazzo un cecchino ci torchia, tuona un colpo, siamo a Sarajevo.
Dando precedenza cronologica, iniziamo con la Guerra di Corea (1950-53). Il mondo trema quando all’altezza del 38° parallelo ha inizio l’ostilità tra nord e sud coreani. In realtà il conflitto, pienamente inserito nel contesto bipolare della Guerra Fredda, è prima di tutto interesse dei due blocchi contrapposti. Ecco perché sul campo di battaglia ricordiamo le gesta di un cinese, Zhang Taofang, e di un australiano, Ian Robertson. Il primo confermò 214 uccisioni ripugnando un’ottica di precisione ma servendosi esclusivamente di tacca e mirino (stile Simo Häyhä). Il secondo tacque sul numero di vittime, per non essere definito “un eroe in guerra e un assassino in tempo di pace”; comunque il numero dovrebbe avvicinarsi a quello di Taofang.
Entrambi i soldati si distinsero per una rinnovata interpretazione del loro ruolo. Non più inquadrati rigidamente in un corpo d’arme più ampio, sia Robertson che Taofang agirono in avanscoperta, anticipando l’azione del loro battaglione di riferimento. Ciò in difformità con i canoni tattici della Seconda Guerra Mondiale. Cecchini e ricognitori, un binomio che avrebbe caratterizzato anche lo scenario asiatico sud-orientale. Guerra del Vietnam (1955-75). Tanto i Viet Cong quanto i marines americani si avvalsero di tiratori scelti accuratamente selezionati. Vista la morfologia del contesto bellico, entrambe le fazioni si accorsero di dover “aggiornare” addestramento e dotazione da cecchino. I cannocchiali restarono una rarità (anche se proficua in alcuni casi, “Penna Bianca” Carlos Hathcock ne è la dimostrazione) con i fucili da caccia/sportivi incontrastati nelle scelte dei tiratori di precisione.
Vi sottopongo ad esempio il Remington 700 (soprannominato M40, poi M40A1 quando sostituirono il calcio in legno con uno in fibra di vetro, non deperibile a causa delle condizioni climatiche ostili). In Vietnam il cecchino aveva uno scopo principale: colpire l’obiettivo sensibile di turno e rallentare le operazioni nemiche. Svolto questo lavoro, il resto diveniva “straordinario”. L’indicazione proveniva dai vertici militari, ma presto, in altre circostanze, essa sarebbe cambiata. Irlanda del Nord, contea di Armagh, due squadroni di tiratori scelti (unite nel nome di South Armag Snipers) della Provisional IRA sono appostati sia ad est che ad ovest del territorio conteso. L’ordine è quello di eliminare il “britannico”, anche in condizioni sfavorevoli (scarsa visibilità, posizione non ottimale, rischio di essere individuati…).
Teniamo a mente questa tenacia, violentemente messa in pratica dal 1968 al 1998 nel conflitto nordirlandese. 24 attacchi registrati per le famigerate unità scelte IRA. L’effetto che sortirono fu prima di tutto psicologico. Le forze di sicurezza provenienti da Londra temevano attacchi in ogni momento e da ogni postazione (frequenti erano i cecchini appostati nei bagagli delle auto). Lo sparo ravvicinato – sempre entro i 300 metri – poi non aiutava nel riconoscimento, vista l’abilità del riottosi nel dileguarsi in tempi record. Alla fine solo una delle due unità dei cosiddetti One Shot Paddy venne sgominata dalla SAS. Più o meno negli stessi anni nei Balcani andava in scena una contesa etnica, religiosa, politica, militare violenta oltre modo.
Nell’ampio contesto delle guerre jugoslave, rivolgo la mia attenzione allo scenario bosniaco (1992-95). Era facile incappare nel cartello “Pazi Snajper!” – “attenzione cecchini”, soprattutto in una città come Sarajevo, nella fattispecie nella strada che dal centro storico collegava all’area industriale, la Zmaja od Bosne. Il “Vicolo dei Cecchini” è un nome che non esprime malintesi. Tra i mille grattacieli, il tiratore scelto serbo o bosgnacco aveva visuale completa sul territorio sottostante. I passanti che per un pezzo di pane erano costretti ad attraversare quel rettilineo infernale, potevano contare su delle assi verticali in legno come protezione. Secondo il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, nel corso di due anni (settembre ’92, agosto ’94) in quella strada morirono sotto tiro di un G22 in 659 tra militari e civili. 60 erano bambini. Piccole creature capitate nel mirino del cecchino…