Le fotografie che ho scelto per questo articolo raffigurano: un gruppo di tre o quattro uomini che stanno per essere sepolti vivi. Un bambino sporco di sangue e terra, ustionato, probabilmente rimasto l’ultimo della sua famiglia, che piange nel bel mezzo di un paesaggio urbano martoriato. Infine un ragazzo in ginocchio che attende, con desolante accettazione, la sua inesorabile fine, decretata da una lama tra capo e collo. Queste tre fotografie, tra le meno cruenti, immortalano attimi disperati e insensatamente violenti. Scene comuni a Nanchino, in quel dicembre del 1937, quando l’esercito imperiale giapponese si macchiò di un numero indefinito di crimini contro la popolazione cinese, contro l’umanità tutta.
Anche se tale violenza non trova giustificazioni di alcun tipo, dobbiamo fare un passo indietro nel tempo non tanto per comprenderla, quanto più per scovarne il germe, la folle motivazione, sempre che ne esista una. Dalla seconda metà del XIX secolo Cina e Giappone si posero a rappresentanza di due tendenze diametralmente opposte. Il primo si dimostrò sempre più un impero di carta, dilaniato dall’aggressività colonialista occidentale e dalle turbolenze interne al paese. Il secondo, al contrario, si rafforzò secondo un’ottica industriale-militarista, accrescendo il proprio prestigio internazionale anche attraverso l’affermazione bellica contro la Corea, la decadente Cina e il fiero Impero Zarista.
Tokyo non nascose le proprie mire espansionistiche a danno cinese. Anzi, ne diede piena dimostrazione nel biennio 1894-95 con la Prima Guerra Sino-Giapponese (schiacciante vittoria del Sol Levante). Sulla situazione interna cinese non spendo troppe parole, avendo trattato l’argomento in precedenza (qui l’articolo di riferimento). Ci basti sapere che l’instabilità politica e la disgregazione istituzionale permise ai giapponesi di penetrare nel nord continentale, impossessandosi della Manciuria e mettendo in piedi l’esemplare stato fantoccio del Manchukuo. Tutto ciò nel 1931. Quello fu il preludio ad un’ulteriore invasione, che effettivamente ebbe luogo 6 anni dopo, nel 1937, a seguito del noto “Incidente del ponte Marco Polo“.
La volontà di un assoluto dominio regionale e l’odio – senza mezzi termini – di stampo raziale nei confronti della popolazione cinese (Sinofobia) divennero due direttrici pronte ad incontrarsi, fatalmente e tragicamente, nella città di Nanchino, dal 1912 capitale della Repubblica di Cina. I giapponesi arrivarono nella grande città nei primi di dicembre, dopo aver combattuto aspramente per la conquista di Shanghai. Ivi incontrarono un’accanita resistenza dell’armata del Kuomintang (il Partito Nazionalista Cinese), esasperando ancor di più la rabbia giapponese nei confronti dei cinesi. Lo stesso imperatore Hirohito, dopo la Battaglia di Shanghai, ordinò ai suoi comandanti di non rispettare i vincoli imposti dalla convenzione internazionale sul trattamento dei prigionieri. Così facendo, il massimo rappresentate dell’identità giapponese lasciò a briglia sciolta gli alti vertici militari sulla conduzione delle operazioni militari.
Il 13 dicembre 1937 diversi reparti del Dai-Nippon Teikoku Rikugun (l’esercito imperiale giapponese) entrarono nella città. Il massacro che ne seguì, per il quale morirono all’incirca in 300.000, inorridì persino gli osservatori internazionali presenti in loco. Nota è la deposizione di John Rabe, imprenditore tedesco e membro del partito nazionalsocialista, il quale si adoperò attivamente per salvare la vita di 200.000 mila persone. Egli creò una zona di sicurezza, accogliendo tutti i rifugiati cinesi scampati all’orrore nipponico. Un orrore che, in tutta onestà, faccio fatica a presentare. Non furono solo esecuzioni, ma violenze sessuali a danno di donne, bambine e bambini. Impalamenti, gare di decapitazioni, deportazioni nei laboratori per la conduzione di esperimenti biochimici. E questa è solo una parte di ciò che veramente accadde.
Le testimonianze sopravvissute (numerosi furono i tentativi nipponici di oscurare/sabotare la documentazione prodotta) non furono solo internazionali. Tanto gli abitanti di Nanchino quanto esponenti delle truppe assalitrici consegnarono ai posteri racconti bestiali sugli eventi. Vi lascio con un consiglio spontaneo. Esso è rivolto anche a chi, magari per una questione di sensibilità personale (che non oso neppure sfiorare, ritenendola sacrosanta), non riesce ad osservare i resoconti fotografici di quel dicembre 1937. Date un’occhiata al catalogo d’immagini inerenti all’argomento. Solo così ci si può rendere VERAMENTE conto. Si può maturare una precisa idea sull’esito di una concezione militarista e sociale distorta, unita ad un viscerale risentimento razzista e alla fobia per il diverso. Accadeva neppure un secolo fa, eppure delle volte sembra che nulla sia mai successo.