160 milioni tra bambine e bambini, più della metà dei quali rischiano la vita tutti i giorni o comunque svolgono attività logoranti sul medio-lungo termine. Secondo i dati Ilo e Unicef (aggiornati al giugno 2023) questi sono i numeri che quantificano l’entità mondiale dello sfruttamento del lavoro minorile. Contro questa assurda ingiustizia, purtroppo non insolita, si erse un bambino, sì, un ragazzino prima ancora di indossare i panni dell’attivista, del portavoce e del simbolo. Il suo nome era Iqbal Masih e la sua storia non deve essere dimenticata.
Iqbal nasce nel 1983 in Pakistan, esattamente a Muridke, una città di 163.000 abitanti nella provincia del Punjab. La situazione economica in famiglia è abbastanza disperata, perché mamma e papà si sono indebitati fino al collo per pagare le nozze del fratello maggiore. Tutti devono fare la loro parte per colmare la lacuna di quell’esborso, tutti compreso il piccolo Iqbal. A cinque anni egli può già annoverare una discreta esperienza come manovale in una fabbrica di mattoni. Il curriculum interessa in particolar modo un mercante di tappeti che acquista il bambino per 600 rupie (all’incirca 12 dollari americani con il cambio dell’epoca). Inizia così la schiavitù di Iqbal Masih.
È bene esplicitare un fatto: quella era la vita per molti coetanei di Iqbal, almeno in Pakistan. Ma cos’era il Pakistan allora? Tra gli anni ’80 e soprattutto negli anni ’90, si iniziò ad indicare il paese dell’Asia meridionale come uno di quelli “emergenti”. Di fatto il suo prodotto interno lordo si basava all’epoca (la situazione oggi non è cambiata di tanto) sulla crescita economica supportata da un’ampia manodopera a costo scarsissimo. Un bell’impulso per la crescita del paese, ma una mazzata terribile per le speranze di tanti giovani e giovanissimi, derubati dell’infanzia, privati di un libro sul quale poter apprendere qualcosa.
Il piccolo Iqbal sgobba 12 ore al giorno per guadagnare niente, una misera rupia. Le condizioni di lavoro non esistono e la violenza è il pane quotidiano che bambine e bambini mandano giù senza pensarci, perché ragionando verrebbe voglia di farla finita. Ovviamente non mancano casi di spiriti indomiti in cerca di fuga, Iqbal è tra questi. I suoi aguzzini però riescono quasi sempre a catturarlo e a rinchiuderlo all’interno di una soffocante cisterna sotterranea che lui, con neppure troppa fantasia infantile, chiamerà “la tomba”. Quel “quasi” è però profetico. Esatto, perché nel 1992 il ragazzino di Muridke riesce a fuggire, accodandosi ad una manifestazione indetta dal Fronte di Liberazione dal Lavoro Schiavizzato. Destino vuole che a quella protesta in nome della libertà, Iqbal Masih, una creatura emaciata dal volto gentile di neppure 10 anni, trovi lo spazio per poter denunciare al mondo le vessazioni sofferte.
L’appello del ragazzo fa breccia nell’animo dei più, tra cui gli addetti stampa presenti. L’intervento viene ripreso dal BLLF (Bonded Labour Liberation Front) e dal suo massimo rappresentante, il sindacalista Eshan Ullah Khan. Quest’ultimo giocherà un ruolo di primo piano nella lotta per i diritti dei bambini e contro lo sfruttamento del lavoro minorile in Pakistan. Le parole spese da Iqbal sono salvifiche, perché lo allontanano dalle fabbriche per farlo approdare tra i banchi di scuola. Là, dove egli vuole restare il più a lungo possibile, perché in cuor suo sa che un giorno diventerà avvocato, un monolite a difesa degli innocenti contro il perverso ingranaggio del lavoro minorile. Quel giorno non arriverà mai.
Iqbal Masih viaggia e sensibilizza. Asia, Europa, USA, tappe di un percorso pericoloso, perché in patria sono tanti coloro che traggono vantaggio dallo sfruttamento minorile e che magari sono affiliati alle cosiddette “mafie dei tappeti“. Nel 1994 il bambino, di passaggio a Boston, vince il Reebok Human Rights Award. Sono 15.000 dollari che lui non vede neanche, perché li reindirizza verso un progetto inerente la costruzione di una scuola per minori ex-schiavi. Un intervento a Lahore permette la liberazione di 3.000 piccoli lavoratori e la chiusura di un centinaio di edifici atti alla produzione tessile, non in regola secondo le nuove direttive governative.
L’attivismo Iqbal lo paga con la vita. Il 16 aprile 1995, mentre si sta recando in chiesa per la messa pasquale, una raffica di proiettili gli è fatale. Si spegne a 12 anni. Il processo non punirà nessuno, ma punterà il dito contro l’aleatoria “mafia” di cui sopra. I suoi sicari, a distanza di 29 anni, sono ancora a piede libero. Voglio concludere con l’estratto di uno dei suoi ultimi discorsi: “Non ho più paura del mio padrone. È lui che ha paura di me, di noi, della nostra ribellione. Nessun bambino dovrebbe impugnare mai uno strumento di lavoro. Gli unici strumenti di lavoro che un bambino dovrebbe tenere in mano sono penne e matite. Da grande voglio fare l’avvocato e lottare perché i bambini non lavorino affatto”.