Non volendo urtare la sensibilità altrui, mi soffermo anzitutto su due premesse, una sul contenuto visivo dell’articolo, l’altra sulla possibile repulsione che si può provare nel leggere quanto segue. Per deliberata scelta personale non ho voluto integrare immagini concrete ed effettive dell’argomento che sto per trattare. Se qualora qualcuno – forte di stomaco – fosse interessato, basta scrivere il termine “Lingchi” su un qualsiasi motore di ricerca per soddisfare la propria sete di curiosità. La seconda premessa invece assume più i contorni di un avvertimento. Spesso mi sono ritrovato a raccontare, descrivere, mostrare pratiche di tortura abominevoli (per dovizia di cronaca ricordo l’esecuzione col cannone, le carceri di Port Arthur o la bollitura in olio), ma questa – forse per spiccato disgusto personale e per le immagini visionate prima della stesura – credo le superi quasi tutte.
Messo il disclaimer grosso quanto una casa, iniziamo. Introdotto nella Cina imperiale nel X secolo e abolito, solo formalmente, nel 1905, il Lingchi ha rappresentato per mille anni esatti un brutale quanto cruento metodo di tortura ed esecuzione. Il termine stesso non lascia spazio a dubbi: “Lingchi” (凌遲) significa “morte dai mille tagli”. Riservato a crimini gravi come tradimento o parricidio, il Lingchi comportava il lento smembramento delle carni della vittima, prolungandone la sofferenza prima dell’inevitabile trapasso. Si può comprendere da sé, ma la pratica fungeva al contempo da deterrente sociale e monito rivolto a potenziali criminali.
Il metodo di esecuzione era appositamente barbaro e crudele. La scarnificazione del malcapitato procedeva lentamente (tant’è che una delle traduzioni papabili di Lingchi è anche “lento processo”, 殺千刀). Se lo sfortunato fosse morto prima del termine del processo, il boia avrebbe continuato l’opera per umiliare il defunto.
Ed è proprio il caso di dirlo: il diavolo stava nei dettagli. Le recisioni solitamente iniziavano dal petto; l’estrazione di seno e tessuti circostanti procedevano fino allo scoperchiamento della gabbia toracica. Il carnefice proseguiva su gambe e braccia (a quel punto la vittima era passata già a miglior vita), potendo poi scegliere di amputare gli arti o pugnalare simbolicamente il cuore.
Una peculiarità macabra accumunava Occidente e Oriente, due mondi così lontani eppure così simili. Se la famiglia del malcapitato pagava bene, il giustiziere come primo passo recideva la carotide o pugnalava subito il cuore. La morte prima della tortura era il massimo che si potesse ottenere. Stessa cosa accadeva sui patiboli d’Europa (i casi di Anna Bolena, Mastro Titta o i vari boia veneziani – che vi invito a recuperare, tanto siamo in tema – sono emblematici).
In un millennio di (dis)onorevole esistenza, il Linghci ha conosciuto varie evoluzioni e aggiornamenti. Si può prendere ad esempio lo standard dei tagli da eseguire che mutò con il passaggio delle dinastie. Durante la dinastia Yuan (1271-1368), di matrice mongola, i registri annotavano per i Lingchi non più di 100 tagli prima della morte. Molto più abbondanti i numeri sottoscritti sotto i successivi Ming (1368-1644), in cui non bastavano 3.000 sfregi per far sopraggiungere il termine del rito.
Qualcuno (io per primo mi son posto la domanda) potrebbe giustamente domandarsi da cosa derivi una tale efferatezza e come nasca un simile canone esecutivo. La risposta esiste ed è comprensibile solo se si assimila il modo in cui ha funzionato la società cinese fino al secolo scorso. Per farla breve, in una cultura profondamente interessata allo status e al rispetto reciproco, il Lingchi era la peggiore forma di umiliazione e vergogna. Inoltre la prassi aveva forti connotazioni religiose. Secondo l’idea confuciana di “pietà filiale“, era considerato immorale apportare modifiche al proprio corpo, deturpandolo in modo violento o non (vedasi i tatuaggi). La morte dai mille tagli era in tutto e per tutto l’annichilimento del corpo e dello spirito. Essenzialmente abominevole, si potrebbe dire.
Quest’ultima sezione vorrei dedicarla all’elenco di casi specifici che in particolar modo hanno colpito il mio immaginario. Dando un’occhiata alle varie contingenze, ho notato come coloro i quali andavano incontro a questo triste fato spesso erano colpevoli (chissà fino a che punto) di tradimento, lesa maestà, eccidio, parricidio. Nel 1582 uno stupratore che aggredì 182 donne fu condannato al Lingchi. Quarant’anni prima 16 cameriere di palazzo andarono incontro alla stessa sorte per aver ordito, secondo i giudici, una congiura contro l’undicesimo imperatore Ming, Jiajing.
Dissidenti politici e uomini troppo potenti/ingombranti non sfuggivano all’esecuzione. L’esempio più famoso è Fang Yizhi, un celebre studioso, scienziato e retore (nei documenti giudiziari viene definito senza troppi giri di parole “chiacchierone”) vissuto tra la tarda dinastia Ming e l’esordio della dinastia Qing. Dopo aver ripetutamente criticato i governanti Manciù, fu accusato di sedizione nel 1665 e condannato a morte da Lingchi.
Proteste formali contro l’attuazione dell’esecuzione vi furono sin dal XII secolo, ma qualcosa in tal senso si mosse solo tra Otto e Novecento. Una cosa divenne chiara a tutto il vertice imperiale: il Lingchi era un disastro per le pubbliche relazioni. La Cina era sempre più influenzata dalle potenze occidentali e i suoi governanti impararono col tempo che la sopravvivenza dell’istituzione monarchica passava per forza di cose per la modernizzazione, tanto tecnica quanto sociale.
L’ultima condanna al lento processo risale all’aprile 1905, quando a Pechino un servo fu incriminato della morte del padrone. Sfortunatamente per i governanti cinesi, quel giorno passava di lì per caso un soldato francese munito di macchina fotografica. Scattò qualche foto che poi pubblicò, dando risalto internazionale alla “pratica barbara e brutale” (come se nelle colonie francesi non accadesse nulla di tutto ciò…). L’impero abolì quello stesso anno la pratica, anche se ufficiosamente si registrò qualche sporadico caso negli anni ’20 e ’30.