68 anni di servizio, 516 condanne eseguite per conto dello Stato Pontificio (anche se in realtà ne sono 514), una fama che lo precedeva ovunque andasse creando una figura mitica, inarrivabile, esemplare per chiunque avesse voluto intraprendere la stessa strada professionale. Parliamo di Giovanni Battista Bugatti, in arte Mastro Titta, comunemente noto come “er boja de Roma”.
Nato a Senigallia nel 1779, Giovanni Battista iniziò precocemente la sua carriera da carnefice. All’età di 17 anni eseguì la sua prima condanna, per impiccagione e squartamento, ai danni di Nicola Gentilucci. La sua colpa? L’assassinio di un sacerdote e due frati. Il malcapitato folignate fu il primo di una lunga lista, nel vero senso della parola. Mastro Titta annotò ogni singola vittima sul suo taccuino di lavoro, fornendo dettagli sulle generalità e le motivazioni dietro l’estrema sentenza.
Il boia romano creò un precedente durante tutto il suo periodo d’attività, associando indissolubilmente il nome di Mastro Titta a quello di giustiziere papale. Addirittura il popolo capitolino – che lo odiava in quanto portatore di morte ma lo osannava durante le spettacolari e rituali esecuzioni – coniò in suo onore due detti ancora oggi abbastanza in voga, che forse potreste aver sentito. Essi sono: “boia non passa ponte” e il suo contrario “boia passa ponte“. Modi di dire collegati alla quotidianità di Bugatti.
Egli viveva non lontano da San Pietro, in Vicolo del Campanile, sostentato da una rendita mensile proveniente dalle casse della Chiesa. Per via del suo lavoro, non proprio ben visto dalla plebe, gli era pressoché vietato l’attraversamento di Ponte Sant’Angelo, eccezion fatta per le esecuzioni. Il primo detto enunciato sta a significare che ognuno deve starsene al suo posto, senza oltrepassare confini proibiti, mentre il secondo è più lampante: qualcuno sta per morire.
Ora, se volessimo spendere due parole sulla vita privata di Mastro Titta, ci ritroveremmo in difficoltà. In base alla faziosità delle fonti, possiamo inquadrare “er boja de Roma” come un assassino spietato, senza cuore, glaciale o come un bonaccione, che in fondo ha sempre fatto quel che ha fatto perché non c’era nessun altro disposto a farlo. Il contrasto è evidente. Quel che sappiamo, è che Mastro Titta divenne un simbolo di fama internazionale, influenzando suoi colleghi in altre zone d’Italia (vedasi Venezia) e attirando l’attenzione di grandi scrittori oltremanica.
Autori del calibro di Lord Byron o Charles Dickens riportarono nei loro diari di viaggio l’esperienza delle pene capitali al di là del borgo papalino. Entrambi concordarono su due aspetti: l’estrema crudeltà del momento e la controversa estasi gioiosa del pubblico presente. Una consuetudine che si protrasse fino al 1869, anno in cui Mastro Titta spirò. La data, se ci pensate, è anch’essa forte di una valenza simbolica; di lì a pochi mesi la Roma teocratica per la quale Bugatti lavorò strenuamente decadde, lasciando il passo alla corona dei Savoia. Come se la scure avesse decapitato il potere pontificio.