Osservando da vicino la sua Cina nel 1949, Mao capì quale fosse la strada da dover seguire: collettivizzazione dei campi e piani produttivi prestabiliti. Il modello sovietico di staliniana memoria era ben saldo nella mente del leader comunista cinese. L’agricoltura, se spinta al massimo, avrebbe garantito un conseguente sviluppo dell’industria pesante (lucrando sulle eccedenze, ovvio), rendendo così la Cina un paese del primo mondo. Pechino non doveva avere nulla da invidiare a Mosca, ma anche Washington o Londra, ma per realizzare questo progetto un po’ utopistico, serviva un Grande Balzo in Avanti. Mao indicò la via…
Il cambiamento nella vita di campo in realtà era iniziato per il meglio, perché dal ’49 fino al ’53 le famiglie di agricoltori ebbero parziale autonomia nella gestione dei campi: l’importante era cedere parte dell’utile allo Stato. I problemi iniziarono quando Mao chiese di più, molto di più al popolo. Prima le Cooperative Semplici (proprietà terriera gestita da massimo 40 famiglie), poi le Grandi Cooperative (fino a 300 unità familiari), scombussolarono la resa agricola e gli alti vertici di partito lo fecero notare al leader, che non ne volle sapere di cambiare piano. Anzi, semmai lo si doveva esasperare.
Quindi nel 1957, alla scadenza del primo piano quinquennale, il partito chiese al popolo 450 milioni di tonnellate all’anno di cereali e un incremento della produzione siderurgica tale da poter superare entro 15 anni quella della Gran Bretagna. Tutto ciò mentre Mao, dopo la Campagna dei Cento Fiori, aveva fatto fuori circa mezzo milioni di dissidenti politici e intellettuali (da lui invitati ad esporsi su tematiche critiche). Con questa premessa pressoché irrealistica, viste le condizioni d’arretratezza delle campagne cinesi, nel 1958 si inaugurò la stagione del Grande Balzo in Avanti. Ovvero uno sforzo collettivo immane per condurre alla grandezza il nome del paese. Peccato che solo Mao, forse accecato dalle più rosee aspettative, credette davvero di poter raggiungere gli obiettivi prefissati.
Di fatto si andò a rinsaldare il legame tra settore primario e secondario, un legame che doveva condurre alla crescita parallela tanto del primo quanto del secondo. Come se fosse un’operazione di causa-effetto matematica. E poco importava ai quadri se a pagare pegno sarebbero stati milioni di persone indottrinate, affamate e stremate. Mao chiese a più di 100 milioni di cinesi di lavorare nella costruzione di infrastrutture capaci di reggere la massiccia produzione. Allo stesso tempo nacquero le Comuni Popolari, fiore all’occhiello dell’ideologia maoista. Insediamenti umani sparsi nella campagna, ospitanti fino a 20.000 anime, in cui la proprietà privata era solamente un lontano ricordo sbiadito nel tempo. Tutto, davvero tutto, era in comune. E proprio in virtù di ciò, si sacrificavano alle fornaci (per la produzione di metallo grezzo, scadente) ogni tipo di effetto personale. Persino le pentole delle (ex) abitazioni non scamparono a questo destino.
Il lavoro era massacrante e proseguiva per obiettivi giornalieri. Non esisteva una retribuzione monetaria ma si pagava in buoni convertibili – magari per una migliore razione di cibo. I quadri pensarono bene di creare la competizione tra queste comunità e il risultato fu catastrofico, anche per via di direttive insensate. Divenne ordinario spaventare i passeri fino alla morte per la conservazione del raccolto. Si dichiarò esplicitamente guerra ai ratti, alle cavallette e alle zanzare (Campagna di eliminazione dei quattro flagelli). Presero piede alcune teorie botaniche fantascientifiche, che non condussero ad alcun risultato evidente ma solo ad una perdita di tempo. Tempo che le persone non avevano neppure per procreare! Naturale conseguenza di questo sforzo immane, la carestia!
Dal 1959 fino al 1961 tutto ciò che si produceva praticamente finiva allo Stato, senza che la popolazione potesse sfamarsi. Gli altri dirigenti di partito provarono a far ragionare Mao. Il primo della lista a provarci, vanamente, fu Peng Dehuai, il quale fu declassato e messo in disparte. Anche Chruščëv, notando qualche similitudine tra il leader cinese e Stalin, provò a dare qualche soluzione, ma niente. Infine Liu Shaoqi, presidente della Repubblica Popolare, nel 1962, dopo gli esiti di un’indagine da lui propugnata, fermò quel Grande Balzo in Avanti, che in realtà fece fare due giganti balzi indietro all’intero apparato socio-economico del paese. Toccato il fondo, la Cina si aprì al mercato libero e alle privatizzazioni, uscendo da uno dei periodi peggiori della storia nazionale.