Il termine kamikaze è oggi universamente conosciuto e tutti conoscono il tragico atto di questi soldati che decidevano di morire suicidi per il bene della loro nazione. Il termine deriva da kami, termine importante nello shintoismo che indica la divinità, e kaze (letteralmente “inspirare” ka, ed “espirare” ze) che è traducibile con vento.
La storia dei piloti del vento divino non è però, come spesso si crede, collegata solo alla seconda guerra mondiale. Una possibile ipotesi, forse fantasiosa, risale infatti al XIII secolo, quando il Giappone era minacciato dai mongoli di Kublai Khan. Secondo i racconti infatti, durante entrambi i tentativi di invasione del popolo delle steppe, sia nel 1274 che nel 1279, un tifone salvò il Giappone dalla flotta nemica.
Durante la Seconda Guerra Mondiale poi, momento di esasperato nazionalismo per il Paese del Sol Levante, così come per il resto dei Paesi in lotta, la figura dei kamikaze tornò fortemente in voga. Molti giovani e giovanissimi infatti si vergognavano di essere sopravvissuti alle varie battaglie o in generale di non morire per la patria. La strada degli attacchi suicidi era quella dunque di una morte onorevole e simbolo di gratitudine per il Paese.
Al contrario di come si narrava in patria però, questi attacchi era fortemente inutili. Le perdite si limitavano infatti ad una portaerei americana e una dozzina di altre navi. I danni generati dagli attacchi suicidi erano veramente irrisori, soprattutto per lo sterminato esercito americano.
La retorica nazionalista diffusa in Giappone però faceva dei propri martiri delle vere e proprie divinità. Il sacrificio per la patria era la massima ispirazione di molti e garantiva gloria eterna. Ciò testimonia la forte aderenza ai precetti nazionalistici e soprattutto la grande adesione alla causa nazionale e lo spirito di sacrificio del popolo giapponese.
Mi sono unito alla Shinbu Task Force e pagherò il mio debito di gratitudine al Paese.
Padre e madre, sono andato in battaglia di buon umore.
Mamma e papà, ho messo una foto di mio fratello maggiore nella mia tuta da volo.
Padre e madre, mi vergogno profondamente di me stesso che, fino alla fine, non ho corretto il mio atteggiamento inappropriato e maleducato di bambino.
Mamma (matrigna), mi hai cresciuto da quando avevo sei anni, e non ti ho mai detto ‘mamma’ che sei più della mia madre biologica. Quanto deve essere stato triste per te. Ho pensato tante volte di chiamarti così, ma non l’ho fatto davanti a te, perché ero imbarazzato. Ora è il momento per lui di chiamarti ad alta voce: “Mamma”.
Probabilmente anche mio fratello maggiore nella Cina centrale si sente allo stesso modo. Madre, ti preghiamo di perdonare entrambi. Ora, mentre vado in battaglia per eseguire un attacco speciale, la mia unica preoccupazione sono le due cose menzionate sopra. A parte questi, non ho rimpianti.
Le persone vivono 50 anni e vivrò una lunga vita con 20 anni. Per quanto riguarda i restanti 30 anni, ne ho dati la metà a ciascuno di voi, padre e madre. Usa i soldi che hai risparmiato nel portasigarette.
Padre e madre, me ne vado. Vado con un sorriso e la certezza di distruggere una nave nemica.
Nobuo Aihana
La lettera soprastante è del caporale Nobuo Aihana, della squadra “Shinbu”. Un primo tentativo del caporale fallì per problemi tecnici al motore. Questo non gli fece cambiare idea, anzi forse lo fece vergognare e lo invogliò maggiormente. Il 4 maggio del 1945 il suo attacco suicida si abbatté nei pressi di Okinawa, dove trovò la morte, e la gloria eterna.