Genocidio. Una parola dal carico simbolico non indifferente. Un termine duro e delicato allo stesso tempo, con il quale molti dovrebbero fare i conti; un condizionale amarissimo. Nel pronunciarla la mente vola tempestivamente verso i campi costruiti dai tedeschi in mezza Europa prima e durante la Seconda Guerra Mondiale. Campi nei quali si compì l’orrore dell’Olocausto. Tuttavia, pochi decenni prima ebbe luogo un altro disumano genocidio che ancora oggi stenta ad essere riconosciuto universalmente: lo sterminio armeno.
Il contesto storico è quello della Grande Guerra, l’area geografica di pertinenza è la Penisola Anatolica Orientale. Quei territori allora facevano parte dell’Impero Ottomano, un enorme complesso statuale multietnico che al suo apogeo si estendeva dall’Ungheria allo Yemen e dall’Algeria all’Azerbaijan. Dalla fine del Seicento era iniziato un periodo di lenta decadenza con una conseguente riduzione del suo territorio. Nel 1914 controllava solamente la una piccolissima porzione della Tracia sud-orientale (corrispondente al territorio europeo ancora oggi parte della Turchia), la penisola anatolica, la Mesopotamia, la Siria, la Palestina e la costa occidentale della penisola araba. La religione di stato era l’Islam, ma nel corso dei suoi sei secoli di esistenza si era saggiamente dimostrato assai tollerante verso cristiani ed ebrei, le due principali minoranze religiose. Questo fino all’Ottocento, quando l’ideologia nazionalistica e razzista che pervadeva gli animi degli europei di allora contagiò anche il decadente Impero Ottomano.
Di fronte, infatti, al fermento indipendentista dei numerosi popoli non turchi soggetti all’autorità del sultano, gli alti piani ottomani risposero irrigidendosi su posizioni fortemente nazionaliste. Costoro erano mossi dal timore, fondato, che le velleità di indipendenza da parte dei popoli che abitavano l’impero fosse utilizzato dalle altre potenze europee come piede di porco per mettere mano sui preziosi territori ottomani. Tale preoccupazione riguardava anche gli armeni, importante gruppo di fede cristiano che abitava la regione anatolica.
Nel 1914, dunque, l’Impero Ottomano entra in guerra la fianco degli Imperi Centrali contro Russia, Francia e Gran Bretagna. Apriva in questo modo un fronte sulle montagne del Caucaso, lungo la frontiera con la Russia. Le aree adiacenti il confine russo-ottomano era abitate da numerose comunità armene. La possibilità che anche gli armeni si rivoltassero per l’indipendenza da Istanbul con l’aiuto della Russia si paleso immediatamente di fronte agli occhi della dirigenza dei Giovani Turchi, il gruppo politico che allora governava con metodi prettamente dittatoriali l’Impero Ottomano. A tale paure si univa anche la volontà di fare dell’Anatolia un sicurissimo feudo a netta maggioranza turca e musulmana.
Fu quindi deciso lo spostamento a marce forzate di milioni di armeni, uomini e donne, bambini e anziani, dall’Anatolia alla Siria. Diversi morirono di stenti, altri per le violenze commesse nei loro confronti dalle autorità ottomane. In tutto si stima abbiano perso la vita circa un milione e mezzo di persone. Nonostante la voluminosa quantità di prove che testimoniano la realtà storica dello sterminio armeno, esso non è riconosciuto dalla totalità della comunità internazionale. La Turchia stessa lo nega ufficialmente, asserendo che il grande numero di morti fosse dovuto all’inedia e alla fame e che nelle deportazioni non vi fosse un preciso progetto di sterminio. Chi invece lo ha riconosciuto, ne commemora la memoria ogni 24 aprile, scelta come data convenzionale dell’inizio del genocidio.