Al momento in cui scrivo sono trascorsi pochi mesi dalla morte di Henry Kissinger, spentosi alla veneranda età di 100 anni nella sua placida casa di Kent, nel Connecticut. Le righe e i paragrafi che seguono vogliono rappresentare una riflessione, quanto più chiara e possibilmente trasparente (termine quest’ultimo che suona come un ossimoro se accostato alla vicenda dell’ex Segretario di Stato), sul peso politico e dunque decisionale del Kissinger uomo, consulente politico, consigliere, segretario e amico. Non approfondirò alcuni aspetti della sua lunghissima esistenza. Ne toccherò solamente alcuni, quelli che a mio parere meglio definiscono il suo operato complessivo, da molti considerato pragmatico sino al limite del controverso. Ed è sul filo dell’ambiguità perpetua che Kissinger resse le proprie aspirazioni di potere. Potere: altro vocabolo che per sua stessa bocca divenne cardine attorno al quale far ruotare le decisioni più importanti del secolo decimonono. Dunque chi fu realmente Henry Kissinger?
Anzitutto in origine non fu Henry, ma Heinz Alfred, nato a Fürth nel 1923. Ebreo in un periodo e in un luogo in cui non conveniva esserlo, nel ’38 egli trovò rifugio negli States, ove cambiò nome. Il ragazzotto tedesco studiò scienze politiche ad Harward. Durante gli anni di formazione accademica ebbe modo di conoscere alcune personalità di spicco del panorama americano, primo tra tutti un certo Nelson Rockfeller. Entrato nelle grazie del plurimiliardario, Kissinger riuscì ben presto a scalare le posizioni divenendo un notabile della politica statunitense. Mutò anche la sua propensione partitica, perché dismesse i panni da kennediano convinto per indossare quelli del repubblicano, anche se moderato, anche se aperto al dialogo con chiunque. A Capitol Hill tutti iniziarono a consultarlo, denotando in lui rara sagacia nonché una grande capacità di criterio.
Fu così che sotto la democratica presidenza Johnson (1963-69) il professore divenne fidato consigliere esterno. Ciò non gli impedì di sostenere il caro amico Rockfeller per ben tre primarie repubblicane, l’ultima delle quali nel 1968. L’anno rappresentò la svolta nella carriera professionale di Henry Kissinger. Alle presidenziali vinse “l’avversario” Nixon, il quale volle ostinatamente al suo fianco Super K (come lo chiamerà Newsweek nel 1974). Col presidente Nixon alla Casa Bianca, Kissinger prese i pieni poteri in qualità di Consigliere per la sicurezza nazionale e poi come 56° Segretario di Stato.
Bisogna necessariamente soffermarsi sull’intraprendenza riformatrice di cui Kissinger si fece non solo portavoce, ma autore diretto. Un organo istituzionale tutto sommato “blando” come il National Security Council divenne col professore uno strumento di influenza e dominio proattivo in politica estera. Così facendo egli poté centralizzare il flusso di informazioni federali, aggirare altri uffici considerati superflui e divenire – con un bel colpo da maestro – il negoziatore mascherato dell’amministrazione Nixon (1969-74). Ora sì che possiamo far entrare nella stanza l’elefante, anzi, gli elefanti. Uno di questi pachidermi si chiama Vietnam. Spesso l’opinione pubblica ricorda Kissinger come l’alfiere principale della distensione nel Sud-est asiatico, fautore ad esempio degli accordi con Le Duc Tho a Parigi per il cessate il fuoco. Tuttavia i documenti desecretati durante il quadriennio Carter rivelano canali diplomatici nascosti/controversi messi in piedi da Kissinger con il Vietnam del Nord o con l’Unione Sovietica in quegli anni.
Come non citare poi il golpe cileno su cui si sa ma non si dice (nonostante siano trascorsi più di cinquant’anni). Pubblicamente si inneggiava al disgelo dei blocchi, alla normalizzazione dei rapporti, all’inutile dispendiosità delle crociate contro il comunismo. Sottotraccia Kissinger coinvolse gli USA in buona parte dei colpi di stato sudamericani, dei quali il più tristemente noto è quello del 1973. La documentazione non più protetta dal segreto di stato torna ancora in nostro soccorso. Esistono rapporti in cui Super K ammette una certa ostilità d’intenti contro il socialista Allende. Non solo, egli afferma in maniera plateale come non si opporrebbe ad un’eventuale sovversione dello status quo dalle parti di Santiago del Cile. E c’è ancora qualcuno che osa definirla Realpolitik…
Henry Kissinger tra le altre cose fu anche l’artefice della “diplomazia del ping-pong“, che nel breve-medio termine standardizzò i rapporti con la Cina di Mao ma nel lungo periodo (il presente è una conferma inoppugnabile) significò lo sviluppo di una potenza di livello globale in aperta rivalità con gli USA. Ampie frange della destra americana iniziarono a criticare quel “realismo tattico” tipicamente kissingeriano. Reagan incanalò la voce del dissenso, ergendosi a paladino del neoconservatorismo. Watergate e la nuova amministrazione Ford (1974-77) non sottrassero il potere al professore, ma ne scalfirono in parte la granitica reputazione. I segnali di un decadimento istituzionale prima ancora che politico c’erano tutti. Il “pragmatismo” di Kissinger (sul quale si potrebbe scrivere un libro senza mai trovare una corretta interpretazione della parola) si arrese in fine all’aggressività diplomatica di Reagan, dirompente per tutti gli anni ’80.
Lo statista di origini bavaresi uscì ufficialmente dal gioco, restando disponibile per ogni consulenza in via del tutto ufficiosa. Su di lui poterono contare per tanti altri anni personaggi del calibro di Bush jr. o Trump (nelle relazioni con Pechino e Mosca), e chissà quanti ancora. Fino al novembre del 2023 Kissinger è rimasto attivo, seppur in seconda linea. L’uomo che nel 1973 vinse il premio Nobel per la pace è lo stesso che, in nome della sua discutibile coerenza ideologica improntata sulla stabilità mondiale, finì per compromettere così tante realtà da non poterle annoverare in unica ed onnicomprensiva lista. Henry Kissinger, affascinato dal potere e dalle sue infinite derivazioni, simboleggiò lo Stato profondo. Un’entità succube e celata che in nome dell’imperio è disposta a sacrificare quanto di più caro può esserci.