«È più difficile mantenere l’equilibrio della libertà che sopportare il peso della tirannia». Simón Bolívar
Due secoli separano noi dalle gesta del Liberatore d’America, come lo hanno soprannominato in grande stile i suoi più grandi estimatori. Duecento anni in cui la storiografia mondiale ha dapprima giudicato negativamente la sua figura ed il suo operato, salvo poi riallinearsi su posizioni meno osteggianti e più oggettive. Eppure non sembra trascorso chissà quanto tempo; perché la memoria del condottiero che affrancò un intero continente dalle catene spagnole vive tutt’oggi tra strade, piazze, monete, monumenti, libri, film e così via. Gli anglofoni l’hanno definito il Washington dell’America Latina, mentre non pochi storici e studiosi del Vecchio Continente non hanno avuto dubbi nell’accostare la sua persona ad eminenze come il caro buon vecchio Napoleone Bonaparte o il “nostro” Giuseppe Garibaldi. Paragoni, somiglianze, giudizi a posteriori non aiutano tuttavia a presentare il Simón Bolívar nella sua essenza, umana e perciò complessa, sfaccettata e dunque critica.
Nel mio piccolo voglio adempiere a questo dovere, pur non scadendo nella pretenziosità di chi tutto sa e nulla sbaglia. Allora, passiamo alle generalità. Simón José Antonio de la Santísima Trinidad Bolívar Palacios Ponte y Blanco nasce a Caracas il 24 luglio 1783. La città che gli dà i natali è allora parte del vasto, ma decadente, Impero spagnolo, in quanto capitale della Capitanía General de Venezuela. Nel distretto amministrativo coloniale la famiglia Bolívar rappresenta il punto più alto della piramide sociale. Sono creoli e discendono per via diretta dai fondatori della città. Scontato come l’iter educativo debba condurre il piccolo Simón e i suoi fratelli a padroneggiare l’arte dell’amministrazione e del governo. Eppure il destino, ormai lo si è capito, è tutto fuorché prevedibile.
Quando Simón compie 9 anni è già orfano di madre e padre. Il nonno paterno ottiene la custodia del bambino ma quelli non sono anni felici. Di carattere indomito, il giovane aristocratico non sta mai fermo: scappa dalla sorella maggiore e dà vita ad una disputa legale sulla sua eredità. Alla fine la controversia si conclude con l’affido del ragazzo ad un estroverso insegnante di Caracas, tale Simón Rodríguez. L’incontro tra i due fu una delle fortune più grandi per il giovane Bolívar, perché dal maestro apprese come vivere, non come eseguire gli ordini. Rodríguez “istruisce” anziché “educare” il ragazzo, affina la sua marcata curiosità e modella con saggezza un carattere affatto facile.
Alla morte del nonno nel 1799, il sedicenne di casa Bolívar viaggia in direzione Madrid, dove soggiorna da Gerónimo Enrique de Uztáriz y Tovar, originario di Caracas e fedele funzionario della corona spagnola. Il marchese instrada Simón sugli studi tipici per “uno del suo rango”. Le ore di matematica, danza, storia e letteratura trascorrono noiosamente, al contrario la mondanità madrilena lo sollecita. Esattamente questo lo scenario in cui nel 1800 incontra María Teresa Rodríguez del Toro, della quale si innamora alla follia, sfidando apertamente la famiglia di lei – creola e facoltosa come la sua – per ottenerne la mano. Come nella più bella delle favole, la coppia si unisce in matrimonio e nel 1802 tornano a casa, in Venezuela. Ancora una volta il triste fato presenta il conto, che per Simón è salatissimo, oltre che amaro.
La bellissima María Teresa contrae una brutta febbre gialla che la stronca otto mesi dopo l’approdo in Sudamerica. Addolorato nel profondo, Bolívar fa ritorno in Europa per ritrovare se stesso. Sosta brevemente in Spagna, prima di dirigersi a Parigi, dove nel 1804 fa in tempo ad assistere alle feste per l’incoronazione imperiale di Napoleone, per il quale nutre un confuso sentimento di riverenza e disapprovazione (sempre per la solita storia dell’eroe della rivoluzione che per tornaconto personale incarna gli esatti ideali che aveva contribuito ad abbattere…). In Francia Bolívar sperpera le sue fortune, ragion per cui l’ammonimento del maestro Rodríguez lo scuote intensamente. L’ex insegnante, ora suo mentore, consiglia di recuperare le opere magistrali dell’epoca (da Rousseau a Montesquieu, passando per Voltaire, Hobbes e Spinoza) e di risanare il proprio spirito con un viaggio in Italia.
Da buon discepolo, Simón Bolívar esegue. Il noto Grand Tour lo conduce prima a Milano – dove assiste alla seconda incoronazione di Napoleone, questa volta come re d’Italia – poi a Venezia, Firenze e Roma. Un lungo itinerario che lo arricchisce nella mente e nello spirito. Incontra grandi personalità del calibro di Pio VII, Madame de Staël e Alexander von Humboldt. Nell’Urbe Bolívar sottoscrive con la sua anima un patto, il cosiddetto Giuramento del Monte Sacro. Recatosi sull’Aventino, esattamente come fece la plebe nel V secolo a.C., esclamò: “Non darò riposo al mio braccio né alla mia spada fino al giorno in cui spezzeremo le catene del dominio spagnolo che ci opprime”. Un po’ romanzato forse, ma in un certo senso è ciò che accadde, perché nei successivi venti anni Bolívar si batté in lungo e in largo per tutta l’America Latina, guadagnandosi non a caso l’appellativo “El Libertador“.
Motivato da un persistente impulso indipendentista riattraversò l’Atlantico con l’obiettivo di mettere piede in Venezuela e combattere per la liberazione del paese dal giogo spagnolo. Non era certo il primo a manifestare tali pretese. Il rivoluzionario Francisco de Miranda stava lottando proprio in quegli anni per il medesimo scopo. Le strade dei due si sarebbero intrecciate di lì a poco. Non dimentichiamo il periodo storico in cui si svolge la vicenda: episodio cardine dell’epopea napoleonica è l’insediamento del fratello Giuseppe sul trono di Spagna nel 1808 e la conseguente guerra civile che insanguina la penisola fino al 1814. Per forza di cose gli eventi in Europa influenzarono il corso politico e militare dell’America meridionale. A Caracas assunse i pieni poteri la Giunta Suprema (curiosamente indipendente dalla reggenza spagnola ma non da Ferdinando VII, legittimo re di Spagna) alla quale Simón Bolívar e Francisco de Miranda prestarono giuramento.
Nel luglio del 1811 il Venezuela si fece repubblica e dichiarò la propria indipendenza dalla Spagna. La reazione dei realisti filo-spagnoli e delle truppe ispaniche propriamente dette non si fece attendere. Una combinazione fra la miglior preparazione militare degli europei, dissidi interni ai repubblicani e il catastrofico terremoto che nel novembre del 1811 distrusse Caracas fu fatale per l’esistenza della Prima Repubblica del Venezuela. Altrettanto decisiva fu la ribalta realista per Miranda, che nel 1812 si consegnò agli spagnoli, sopportò lo sdegno dei suoi ex compagni repubblicani (compreso Bolívar che non lo perdonerà mai per questo) e finì in cattività, trovando la morte quattro anni dopo nella prigione di La Carraca a Cadice.
Lungi dall’essere terminata, la lotta per la libertà del Venezuela passava anche per l’affrancamento degli altri vicereami. Il condottiero mosse verso Cartagena de Indias, grande città della Nuova Granada. Qui pubblicò il Manifesto di Cartagena delineando quelle che riteneva fossero le cause della sconfitta della Repubblica venezuelana e il suo programma politico. Quest’ultimo prevedeva l’unione delle forze anti-monarchiche, la lotta ad oltranza per la liberazione di Caracas e il fine ultimo di suddetti sforzi: l’indipendenza del continente in cui sarebbe nata la Grande Colombia, uno stato confederato libero e democratico. Il manifesto ideologico rappresentò il punto di partenza della Campaña Admirable (Campagna ammirabile), un’immensa manovra militare e strategica che condusse l’esercito patriota di Simón Bolívar alla conquista di Caracas il 6 agosto 1813 e alla proclamazione della Seconda Repubblica del Venezuela, di cui egli divenne dittatore.
Sull’anima effimera della seconda esperienza repubblicana si potrebbe scrivere un tomo. Basti sapere in questa sede che le debolezze della prima repubblica si ripresentarono tali e quali nella seconda. La spallata del rinvigorito esercito realista e le infinite spaccature interne costrinsero nuovamente il gran capitano alla macchia nel 1815. L’esilio nei Caraibi (Giamaica prima e Haiti dopo) non lo distrasse dal suo sacro dovere. Chiese il supporto a mezza Europa con la famigerata Lettera dalla Giamaica, ma non ottenne nulla. Essendo comunque generale delle armate venezuelane e neo-granadine e godendo ancora della fedeltà dei suoi più validi marescialli – José Antonio Páez e Manuel Piar su tutti – Bolívar riuscì a strappare la Guyana così da renderla il centro operativo delle future azioni militari.
Il controllo del fiume Orinoco permise alle armate patriottiche di avanzare facilmente verso nord. Meno semplice fu l’attraversamento delle Ande venezuelane durante la stagione delle piogge. Era necessario quello sforzo titanico, vitale per sorprendere gli spagnoli comandati da José María Barreiro e liberare Nuova Granada. Una vera e propria impresa, perché Bolívar partì alla testa di soli 3.000 uomini e riuscì nell’impossibile. Sconfisse Barreiro nell’agosto del 1819 e si barcamenò per far passare la costituzione della Repubblica di Colombia, o Gran Colombia che dir si voglia. Sulla carta questa confederazione era composta dalle attuali Colombia e Venezuela. Peccato che la seconda fosse ancora in mano spagnola. Nessun problema, nel 1821 anche la terra natale si aggregò al progetto bolivarista. Il Liberatore d’America divenne presidente, il suo vice fu Santander e il territorio venne suddiviso in tre governatorati militari subito affidati ai più stretti collaboratori.
Il nuovo presidente Simón Bolívar ebbe poco tempo per la politica. Ricordate il sogno per il quale era necessario, anzi, doveroso scacciare gli spagnoli da tutto il continente? Ecco, il miraggio doveva tramutarsi in realtà. Bolívar puntò sull’Ecuador e sul Perù, vincendo la scommessa, seppur a caro prezzo. Proprio in Perù entrò in contatto con l’altro grande liberatore sudamericano (di cui vi abbiamo parlato in un precedente articolo): José de San Martín. Il rivoluzionario argentino lasciò l’onore della presa di Cuzco a Bolívar, che conquistò alla fine del 1824, ponendo la parola fine al ciclo di battaglie e guerre per l’indipendenza dei popoli latino-americani. Il restaurato Ferdinando VII in 12 anni di scontri perse anche l’ultimo centimetro di colonia americana (poté consolarsi con le sole Cuba e Porto Rico, che al tramontare dell’Ottocento perse ugualmente).
La più grande aspirazione di Bolívar era divenuta realtà tangibile. Il giuramento sull’Aventino era stato soddisfatto. Si attendeva solo un lieto fine, che purtroppo non giunse mai. Gli alleati del presidente si fecero da parte, un po’ perché timorosi della deriva imperialista di Bolívar e un po’ perché stufi di essere semplicemente dei sottoposti. Quando nel 1828 El Libertador sfuggì per poco ad un attentato a Bogotà, comprese che il suo tempo era giunto. Il biennio che trascorse fino al 1830 fu irrequieto e denso di avvenimenti spiacevoli.
Lo Stato centralizzato che aveva contribuito a formare stava crollando sotto spinte secessioniste. Gli estremismi militari che tanto aveva ripudiato erano in costante crescita. Presentò le dimissioni all’inizio del ’30 ma il congresso le rifiutò. Svendette le sue proprietà desideroso di allontanarsi in esilio, magari in Inghilterra. Le precarie condizioni di salute lo bloccarono definitivamente. Di tubercolosi morì a Santa Marta il 17 dicembre 1830, all’età di 47 anni. Il comunicato presidenziale recitava “A la una y tres minutos de la tarde murió el sol de Colombia“, ovvero “All’una e tre minuti del pomeriggio è morto il sole della Colombia”.
Lasciò un mondo diverso da come l’aveva trovato. Seppur disilluso negli ultimi anni di vita – celebre è la frase dal contenuto amaro “tutti coloro che hanno servito la Rivoluzione hanno arato il mare” – non rinnegò mai nulla di quanto compiuto. Dopo aver redatto il testamento di 14 punti, volle far pubblicare l’ultimo bando al popolo. Concludo con l’ultima riga del documento, esplicativa del Bolívar persona prima che militare, politico e statista: “Se la mia morte contribuirà alla cessazione dei partiti e al consolidamento dell’Unione, scenderò pacificamente nella tomba“.