Per leggi suntuarie s’intendono tutte quelle disposizioni legislative aventi come scopo la limitazione dell’ostentazione del lusso. Spesso le norme coinvolgevano ambiti come la moda o la cucina, dove l’imposizione di carattere culturale era più evidente o faceva “più male” in termini di visibilità e costrizione. Solo da questa piccolissima e superficiale introduzione si può capire una cosa: l’uso delle leggi suntuarie divenne uno strumento dei più facoltosi per tarpare le ali degli aspiranti tali, un mezzo legislativo in grado di preservare una rigida gerarchia sociale.

Eppure le leggi suntuarie né sono figlie del Medioevo, né nascono per questo. Appartengono all’Età classica, infatti derivano dal latino sumptuariae leges (leggi sulle spese) e indicavano soprattutto una necessità, quella di evitare gli eccessi e conservare una generale morigeratezza. Un esempio noto di legge suntuaria si ha con la famosa Lex Oppia del 215 a.C. Promulgata nel bel mezzo della Seconda guerra punica dal tribuno della plebe Gaio Oppio, la legge andava a normare – o per meglio dire, “inibire” – lo sfarzo palesato dalle donne di Roma. L’intento moralistico era chiaro ed evidente. Il primo Cristianesimo prese appunti e nei secoli tra la Tarda Antichità e l’Alto Medioevo arrivò a ribadire l’importanza di norme atte a demonizzare vestiari troppo audaci o abitudini culinarie sconsiderate.
Ma se in queste epoche l’integralismo si poneva alla base delle svariate proibizioni, nei secoli centrali del Medioevo è più facile credere che all’intento moralistico si sostituisse uno di ordine sociale prima ancora che politico. Mi spiego meglio, e per farlo cito in causa i comuni italiani dal XII secolo in poi.
Laddove non legiferavano le autorità civili, ci pensavano quelle religiose. D’altronde la Chiesa rappresentò a lungo il principale baluardo contro comportamenti considerati decadenti, eccessivi e per questo degeneranti. Del 1279 è il De habitu mulierum (Sull’abito delle donne) – un nome, un programma – scritto dal cardinale Latino Malabranca Orsini. Il testo impartiva al gentil sesso di non vestire con abiti che avessero uno strascico superiore al palmo. Il porporato di Casa Orsini si pronunciò anche in merito ai veli femminili, che nelle sue idee dovevano essere semplici e capaci di coprire elaborate acconciature. Quest’ultimo auspicio decadde immediatamente, visto che le donne dell’alta società continuarono a lungo ad indossare veli pregiati e accuratamente decorati.

Infranta la norma, le colpevoli non avrebbero goduto dell’assoluzione in caso di confessione. Questo entro le mura protette dal Signore, mentre fuori cosa accadeva in caso di trasgressione? Dipende dalle città. A Siena ci videro lungo per esempio. Dal XIII secolo esisteva una multa salatissima per chi non rispettava le leggi suntuarie. Eppure una delibera del 24 febbraio 1413 (di cui conserviamo l’atto ufficiale) permetteva a chi pagava il pegno di tornare liberamente a vestirsi come meglio credeva. Le casse senesi ne giovarono parecchio.
Non si creda che la stretta legislativa riguardasse solo le più grandi città della penisola. Anche nei centri minori ci si dava da fare. Si posseggono carte indicanti delle “limitazioni di costume” apparse a Savona, Gubbio o Pinerolo. Queste valevano solo per la borghesia, la quale aspirava al riconoscimento dell’aristocrazia, o per la piccola nobiltà. L’ambiente di corte ne era escluso insomma.
Per non parlare delle restrizioni valide solo per alcuni tipi specifici di persone: gli emarginati. A Bologna le prostitute non potevano indossare nastri che superassero il braccio e mezzo di lunghezza. A Ferrara o Venezia gli ebrei dovevano rendersi riconoscibili, magari grazie ad un cappello a punta o delle toppe gialle sul braccio.

Per strada come a tavola, in materia di legittimità morale si dava sfoggio alla fantasia. Le persone del Medioevo in questo ripresero dagli antichi, primi a normare sui comportamenti da rispettare in presenza dei commensali. A fare le leggi era l’autorità costituita, che quasi sempre non vedeva di buon occhio le classi sociali immediatamente subalterne. Quest’ultime, scalpitanti e volenterose di elevare il proprio status, arrivarono ad emulare le pratiche dei più ricchi, bandendo delle tavolate sensazionali in termini di abbondanza e ricercatezza. Accadeva dunque che una cena richiedesse investimenti astronomici; un sacrificio economico per un ritorno politico (vedasi favoritismi e creazione di corsie preferenziali). Le leggi suntuarie servivano dunque ad evitare simili sprechi, legittimati esclusivamente da un desiderio di potere.

Non solo in Italia, ma anche in Francia e Inghilterra si crearono leggi ad hoc per frenare le spese culinarie, il reperimento delle materie prime o addirittura per limitare il numero di inviti. Ancora nel Sacro Romano Impero venivano imposte restrizioni sui banchetti sfarzosi, limitando il numero di portate servite nei pasti pubblici. È bene specificare che i provvedimenti, il più delle volte almeno, fossero di entità temporanea. Alcune leggi suntuarie erano promulgate e soppresse con una velocità impressionante. Non per questo in caso di infrazione ci si andava giù leggeri con le punizioni. Tornando a Bologna, nel caso in cui i cuochi avessero disubbidito alle ordinanze restrittive in materia di cibo, avrebbero dovuto pagare una multa di tasca propria. Se indigenti, allora sarebbero andati incontro alla punizione corporale.
Sebbene le leggi suntuarie venissero spesso eluse o non applicate rigidamente, esse riflettevano le tensioni sociali ed economiche del periodo. Con l’ascesa della borghesia e il cambiamento delle strutture sociali, queste normative persero progressivamente di efficacia conoscendo l’abbandono tra il XVIII e il XIX secolo.