Tra i pittori più misteriosi della cultura barocca, Diego Velázquez (1599-1660) fissò il proprio cavalletto alla corte spagnola di Filippo IV. La sua arte vi trovò una perfetta dimora, ma anche la vita della Spagna contemporanea (regale e non) si accomodò senza fatiche nelle tele del pittore. Arte e vita, infatti, non avevano confini per Velázquez, che sulla base di questa convinzione fece degli elementi metapittorici un tratto distintivo della propria produzione. Nel quadro in questione, intitolato “Le filatrici“, arte e vita convivono, ma fanno i conti con una presenza insolita: il mito classico.
Già un suo contemporaneo, l’artista italiano Luca Giordano, definiva il capolavoro Las Meninas di Velázquez “la teologia della pittura”. L’artista napoletano, attivo anch’egli alla corte di Filippo IV, si riferiva alla presenza di Velázquez e della sua tela, di scorcio, sulla sinistra del ritratto della famiglia reale spagnola. Ecco che, infatti, nel dipinto Margherita (figlia del Re) e le sue dame di corte posano proprio nello studio di Diego. Questi le fa accomodare nel proprio spazio ma non intende tirarsene completamente fuori. Così, inserisce se stesso e la tela che sta realizzando nel quadro stesso, a sinistra. Velázquez sta dipingendo Las Meninas davanti all’osservatore, di cui reclama l’attenzione e lo sguardo. E’ il trionfo della metapittura.
Il risultato è un quadro denso di mistero, in cui Velázquez, dentro e fuori dai confini concreti della cornice, si pone a intermediario fra arte e vita. Infatti è solo comprendendo che l’arte dimora nella vita, e viceversa, che il ruolo del pittore prende corpo e acquista senso, e lo spagnolo sembra sottolinearlo. Non sempre, però, è necessario autoritrarsi per ribadire la propria presenza, così Velázquez opta anche per altri stratagemmi. Se ne ha conferma nel dipinto meno noto intitolato “Le Filatrici” (Las Hilanderas). Assenti i rappresentanti della monarchia, per la tela in questione l’interpretazione dei personaggi si fa più complessa. A tal punto da generare un duplice titolo, l’uno più referenziale, l’altro – “La favola di Aracne” – incentrato sulla presunta natura mitologica delle figure. Ancora due mondi (quello prosaico della vita, quello astratto della letteratura) che entrano in contatto. Ancora una volta, a tenerli assieme è la pittura.
Pittura di genere da un lato, mitologia dall’altro. Due dimensioni per natura distanti perché la prima restituisce istanti di vita vera, la seconda ha a che fare con l’Olimpo. Stando al primo titolo, l’opera aprirebbe uno squarcio sulla manifattura di Santa Isabel, dove si filavano gli arazzi per le residenze di Filippo IV. Velázquez l’aveva visitata in prima persona più volte, dunque non era estraneo all’esperienza concreta di quella piccola realtà tangibile. Stando alla seconda denominazione, la tela raffigurerebbe le protagoniste della leggenda secondo la quale la migliore delle filatrici – Aracne – aveva avuto la meglio su Atena.
Stando sempre al mito, la Dea avrebbe punito la sfidante destinandola a tessere per sempre, cioè trasformandola in un ragno. In “Le Filatrici” le due concorrenti sono colte nel pieno della tessitura, ma non occupano affatto una posizione centrale. Al centro, invece, è proprio l’elemento metapittorico: un arazzo che campeggia sul retro, circondato e quasi venerato da altre lavoratrici. L’arazzo, metonimia che sta per il pittore, ha proprio la funzione di legittimare la compresenza di arte e vita nel dipinto. Così, un gattino bianco e nero accovacciato può occupare la stessa stanza della Divinità, di cui non si offre una visione frontale ma di scorcio, sull’estrema sinistra. Di spalle, vicino alla bionda Atena, si trova la sfidante, anche lei proveniente dal mito ma seduta sulle stesse sedie delle filatrici di Santa Isabel.
L’elemento metapittorico, anche ne “Le Filatrici”, risolve ogni contraddizione. L’arazzo sul fondo sta a significare che il laboratorio di Santa Isabel può avere sede nell’Olimpo, e che Atena e Aracne possono abitare uno spazio tutto terreno. L’arte del pittore spagnolo, infatti, non si astrae da ciò che vede ma neppure da ciò che non può vedere, perché – l’autoritratto ne Las Meninas significa questo – Velázquez padroneggia con consapevolezza il proprio ruolo. Sa che l’arte – la letteratura così come la pittura – è un’altra faccia della realtà, quella più soggettiva, più personale, ma proprio per questo non meno vera. L’arte, infatti, decostruisce di volta in volta la vita per ricomporla in nuove forme, per farle abitare sempre nuovi spazi.