A nord-ovest del Regno Unito, quei pochi che parlano ancora l’antico gaelico lo chiamano “Fuadach nan Gàidheal” (letteralmente “Cacciata dei Gaeli”). L’inglese britannico si riferisce alla stessa sequela d’eventi con un più ambiguo “Highlands Clearances” (quindi “Liberazione delle Highlands”). Le parole hanno sempre un loro peso specifico e il modo in cui le parti chiamate in causa descrivono lo stesso fenomeno, lo lascia intendere. Ma quella delle Highlands scozzesi fu senz’altro una sovversione violenta dello status quo, un progressivo tentativo di “sradicamento culturale”, una pulizia etnica che, come molte altre, purtroppo si tende ad ignorare.
Come spesso accade, l’origine di quello che ad oggi viene considerato da studiosi ed esperti un genocidio è da ricercarsi in una miscela di fattori politico-economici. Prima di addentrarci nell’argomento, è funzionale descrivere la situazione sociale della popolazione highlander almeno fino alle insurrezioni giacobite (1688-1746). Nella terra del Ben Nevis e del Loch Ness, donne e uomini vissero per millenni di agricoltura e pastorizia. Un’esistenza semplice all’interno di un contesto sociale altrettanto minimale: esiste un clan e l’appartenenza ad esso è connaturata alla fedeltà che si dimostra al capo. Il capo-clan ricambia questa fiducia proteggendo i suoi uomini in primis, poi la sua terra. Questa mentalità cambia nel XVII secolo per via delle influenze economiche e proto-industriali britanniche. Il capo-clan adesso pensa a se stesso come un proprietario terriero, quindi la terra diventa la fonte del suo potere.
Un cambio di mentalità che ci aiuta a comprendere la differente e variegata reazione della nobiltà scozzese di fronte alla cacciata degli Stuart dal trono inglese (lignaggio garante del benestare scozzese), l’imposizione del parlamento di Londra sul piano politico e la conseguente guerra dichiarata ai sostenitori del giacobinismo. Una reazione che perdurò per decenni, anzi, quasi per un secolo e che alla fine si scontrò violentemente contro il potere inglese, durante la Battaglia di Culloden, del 1746. Quello fu l’ultimo tentativo di uno Stuart di rimpossessarsi della corona di Inghilterra, Scozia e Irlanda.
La sconfitta dell’ultimo Stuart, ovvero Carlo Eduardo, significò ovviamente la vittoria del fronte opposto. Esso vedeva al comando Guglielmo Augusto di Hannover Duca di Cumberland, figlio del re in carica Giorgio II. Le truppe lealiste del principe furono spietate e si lasciarono andare in massacri indiscriminati. Alcuni soldati inglesi riportarono con disgusto le gesta di Guglielmo Augusto. Da qui la nomea di “macellaio” che presto guadagnò. Il Duca, paragonando gli scozzesi delle Highlands a dei selvaggi, perseguitò tutti i sudditi accusati di essere faziosi giacobiti. E quindi stupri, incendi, furti di bestiame improvvisamente furono leciti. La punizione violenta colpì senza distinzione tra chi effettivamente appoggiava gli Stuart e chi invece (e ce n’erano parecchi) assecondò la volontà del re Giorgio.
Fu chiaro a tutti quindi il vero fine di quell’immane orrore: il principe desiderava estirpare per sempre la cultura delle Highlands e nel farlo trovò il pieno sostegno di Londra. Una serie di decreti reali emanati durante tutta la seconda metà del Settecento, provvidero alla cancellazione di quella tradizione gaelica tanto cara agli scozzesi dell’Altopiano: si sovvertì la struttura dei clan; questi si videro costretti a consegnare le armi, a non indossare il tartan, a non poter suonare le cornamuse, alcuni cognomi furono cambiati perché compromettenti e addirittura si vietò il gaelico. A ciò aggiungiamo un blocco intenzionale delle economie locali, già povere e arretrate e un trasferimento forzato della popolazione verso le Lowlands (a sud).
Molti, anche per via delle carestie alimentari e per i raccolti non magri, scheletrici, decisero di fuggire altrove. Scozzesi delle Highlands raggiunsero America e Australia, dando vita ad una diaspora ancora oggi denotabile grazie ai confronti demografici. Il numero dei discendenti di questi highlanders emigrati è maggiore rispetto a coloro che nel presente abitano quelle brumose terre. Il gaelico, da che era la lingua celtica più parlata in quella regione, oggi sopravvive grazie all’1,6% della popolazione scozzese. Tale decimazione oggi ha un nome: il genocidio (dimenticato) dei Gaeli.