A lungo la vetta che oggi conosciamo come Monte Bianco fu regina indiscussa di leggende, misteri e maldicenze. Noti sono i racconti popolari di XVI e XVII secolo che vedevano in quel massiccio a confine tra Italia e Francia la casa ideale di draghi e creature dalla mitica origine. Era semplice crederlo, d’altronde mai nessuno era riuscito a scalare quelle vette così maestose, irraggiungibili persino per la più salda delle ragioni. Con il secolo dei lumi le cose, in parte, mutarono. Gli uomini di scienza smentivano l’esistenza di mostri e portenti del sovrannaturale, sventolando a favore delle loro supposizioni prove ottenute col metodo scientifico.
I naturalisti del primo Settecento liberarono le vette delle Alpi Graie dalle spaventose creature del folclore popolare, spianando al contempo la strada per una futura scalata. Un primo tentativo degno di nota fu quello dell’inglese William Windham Senior. L’esploratore nonché scrittore britannico – padre di un omonimo figlio noto per essere stato Segretario della guerra e delle colonie per la Corona durante l’età napoleonica – nel 1741 partì da Ginevra con l’intenzione di esplorare la valle dell’Arve, in prossimità del massiccio alpino. L’inglese fu in grado di raggiungere il ghiacciaio che sovrasta il villaggio di Chamonix (oggi Chamonix-Mont Blanc). Con grande spirito poetico ribattezzò quel luogo “Mer de glace“, letteralmente “mare di ghiaccio”.
Altrettanto rilevante fu l’esperienza del botanico e geologo ginevrino Horace-Bénédict de Saussure, all’unanimità considerato il padre dell’alpinismo moderno. Saussure spese interi anni della sua vita ad esplorare le valli adiacenti il massiccio, pur non riuscendo mai ad esaudire il suo sogno più grande: scalare il Monte Bianco. I numerosi tentativi andati a vuoto lo spinsero, nel 1760, ad offrire una ricompensa di 20 talleri a chiunque fosse riuscito nell’impresa.
A raccogliere il guanto della sfida fu Jacques Balmat, ben 26 anni dopo. Balmat era un ragazzo di umili origini, proveniente da una famiglia di contadini nella valle di Chamonix, ma famosissimo in zona per la sua abilità in veste di guida turistica. L’intraprendenza del giovane si scontrò con la difficoltà nel trovare la strada giusta per proseguire nella scalata. Finalmente nel 1786 sembrò esserci riuscito, inerpicandosi tra il ghiacciaio del Tacconaz fino ai taglienti contrafforti rocciosi dei Grands Mulets.
Di fronte a lui si ergeva la cupola del Dôme du Goûter. Era proprio una delle guglie che, se viste da lontano (ad esempio da Ginevra), parevano prostrarsi al cospetto del Re delle Alpi, il Monte Bianco. Purtroppo per le aspirazioni della guida, il maltempo si palesò nel momento meno opportuno. Trascorse tre notti all’addiaccio in compagnia di una pagnotta, di una bottiglia di brandy e del gelo che sembrava bloccargli la circolazione. Durante quei giorni trascorsi in alta quota, nella solitudine più totale, Balmat lottò con il suo stesso cervello, cercando di scacciare i pensieri più oscuri. Saranno più o meno queste le parole che spenderà nell’intervista del 1832, cercata e voluta dall’oramai romanziere a tempo pieno Alexandre Dumas padre.
Tornato a valle, l’intraprendente ragazzo sfruttò le tre settimane di bufera per cercare un compagno d’avventura che lo seguisse nell’impresa. Lo trovò nella persona di Michel-Gabriel Paccard, dottore di Chamonix che in passato aveva azzardato la scalata, con esiti rivedibili. Il 7 agosto 1786, intorno alle cinque del pomeriggio, il duo si incamminò verso la sommità del massiccio. Erano muniti di vestiti di scorta, oggetti di misurazione, cibo, un bastone uncinato e tanto coraggio. Nulla a che vedere con la dotazione moderna consona per una simile scalata. Passata la prima notte tra i possenti ghiacciai dei Bossons e del Taconnaz, la coppia proseguì oltre fin dalle prime ore del mattino. La marcia non si fermò neppure dinnanzi ai spaventosi crepacci, che sembravano forare la terra fino al suo nucleo.
Sul Dôme du Goûter uno stanchissimo Paccard suggerì al compagno di proseguire da solo, lui l’avrebbe atteso. Balmat si fece forza e continuò la scalata, fermandosi all’incirca ogni dieci passi per respirare con regolarità. La cosa non è scontata. A quelle latitudini i polmoni si comprimono fino a provare la strana sensazione di non possederli più. Come un maratoneta, sfiancato dai chilometri di corsa, che prima del traguardo abbassa la testa per non tenere conto dei metri mancanti, allo stesso modo Balmat tese verso il basso il capo, fin quando la neve sotto i suoi scarponi non si fece stranamente piatta. Era in cima al Monte Bianco, era sulla sommità del mondo!
Lo spettacolo da lassù era imperdibile. Balmat scese da Paccard per convincerlo a compiere quell’ultima scalata, anche se faticosa. Sulla vetta la guida e il dottore poterono ammirare la vastità dell’orizzonte colorato di rosa dal sole delle sette. Due grandi laghi, come il Lemano e quello di Neuchâtel, sembravano poco più che pozzanghere azzurre, impercettibili ad un occhio sommariamente educato. Ad una grande salita segue sempre una grande discesa. Affermazione banale per uno che scrive da dietro uno schermo ed una tastiera, meno scontato per il duo Balmat-Paccard in quell’agosto 1786. La discesa fino al villaggio di Chamonix fu infernale, forse più della scalata. Il freddo, la spossatezza e la fame unirono le loro forze per soggiogare quelle due povere ma vittoriose anime. La notte sotto la linea dei ghiacci fu quasi fatale, come ricorda la guida.
Alla fine, la mattina del 9 agosto la coppia fu accolta dal villaggio di Chamonix in festa. Uno non ci vedeva più per la cecità da neve, l’altro aveva la faccia bruciata dal sole d’alta quota. Eppure sapevano di aver compiuto una grande fatica, un’impresa intentata fino ad allora. Il Monte Bianco non era più dimora di draghi e creature occulte, da quel momento sarebbe stata una conquista, anzi, “La” conquista di un alpinismo in fasce.