Le menti più brillanti della storia si sono arrovellate per cercarla, senza tuttavia riuscire in alcun caso a raggiungere l’obiettivo prefissato. Ha affascinato generazioni di studiosi, intellettuali di alto rango, uomini dall’acume eccezionale, eppure è sempre rimasta relegata all’ambito dell’evanescenza, in quanto inafferrabile ed inconseguibile. Pietra filosofale, Magnum Opus, Grande Opera, questi ed altri nomi si sono fatti spazio nei circoli alchemici, generando un vivo interesse persino negli animi dei più scettici. Ma da cosa origina questa sfrenata ricerca – perché di quello si è trattato – e in che modo l’essere umano ha concepito nel tempo l’oggetto più prezioso della pseudo-scienza alchemica?
Nel suo senso lato, l’alchimia è una combinazione di svariate discipline quali chimica, fisica, astrologia, metallurgia, medicina e derivati. Per tanti rappresenta il lontano parente della moderna concezione chimico-scientifica, il punto di partenza (seppur deviato) da cui è scaturita la vera scienza, con i suoi tratti empirici e razionali. I primi documenti storici ad attestare l’esistenza di un sapere alchemico risalgono agli ultimi secoli prima della nascita di Cristo. Conoscenze antiche, soprattutto egizie e greche, che andarono a fondersi con stilemi culturali islamici, dando vita all’alchimia medievale che siamo abituati ad intravedere in opere letterarie, televisive o cinematografiche.
Se avessimo chiesto ad un alchimista del XIV secolo quale sarebbe stata la sua aspirazione massima, lui certamente avrebbe risposto avvalendosi di due parole: pietra filosofale. In quell’ottica, possederla significava detenere il segreto della vita e della morte, della materia e dell’universo circostante. La soluzione ultima a tutti i problemi del mondo. Si credeva che due elementi in particolare costituissero la pietra filosofale, ossia lo “zolfo ardente” e il “mercurio acquoso“. I due elementi erano uniti da una simbologia dialettica, perché uno era l’assoluto archetipo del maschile, l’altro il principio del femminile. Altresì raffigurati come il sole e la luna.
La pietra filosofale, di cui si iniziò a parlare in epoca ellenistica, secondo la leggenda era in grado di trasformare i metalli vili in puro oro. Forse il primo ad attribuire un simile potere all’unione sacrale di zolfo e mercurio fu Abu Musa Jabir ibn Hayyan, alchimista persiano vissuto tra VIII e IX secolo. I colleghi nei secoli a venire imitarono le sue formule, cercando di scombinare quanto più possibile le leggi della natura.
Ovviamente ciò accadeva non solo per fini prettamente materiali (l’ottenimento dell’oro) ma anche per raggiungere traguardi etici. Avere tra le mani la pietra filosofale portava alla cura di ogni male, all’accrescimento delle ordinarie facoltà umane… Forse anche alla vita eterna! Inevitabilmente entro un siffatto reticolo argomentativo si inserì, a gamba tesa direi, l’elemento esoterico. Le dottrine alchemiche medievali viaggiarono nel tempo e nello spazio. Giunsero a sviluppi anche interessanti in Europa occidentale (Spagna e Francia in primis) e nella sua parte centro-orientale (area germanica, Boemia, Polonia).
Come metafora popolare generale, la pietra filosofale rappresenta la conoscenza nascosta, l’illuminazione divina e l’obiettivo finale della trasformazione spirituale. Riflette anche i paradossi dell’ambizione umana. Il potenziale dell’ispirazione, ma anche i sacrifici e i dilemmi inerenti la ricerca della perfezione a tutti i costi. Nella sua essenza il Sacro Graal dell’Alchimia è il riflesso del desiderio umano, portato ai suoi estremi. Lo si è sempre saputo, ma non si è mai compresa la natura distorta di una simile ricerca. Ecco perché l’alchimia ha fallito dove la scienza ha vinto.