Dal ‘500 la Pietra di Bologna, ovvero un’iscrizione latina dedicata a Aelia Laelia Crispis, fa letteralmente scervellare interpreti, esperti linguisti, storici e semplici appassionati. Si tratta di un enigma che non conosce risposta, di un arcano così noto da aver dato adito nel corso dei secoli alle più strampalate teorie, una tra le quali citeremo nelle seguenti righe. Ma noi, che della provocazione ci cibiamo quotidianamente, vorremmo introdurre la storia con una domanda poco romantica: e se fosse uno scherzo?
Beh, prima di chiedercelo seriamente, analizziamo i dati certi (ma anche quelli non certi) in nostro possesso. Le prime documentazioni che fanno riferimento all’iscrizione risalgono al XVI secolo. Diversi studiosi, ospiti della nobile famiglia Volta presso il complesso di Santa Maria di Casaralta, annotarono tale scritta dopo averla scovata in un angolo abbastanza nascosto della chiesa. Forse a volere quella dicitura in quel determinato punto fu Achille Volta, il quale dal 1550 commissionò diversi lavori di ampliamento e ristrutturazione del succitato complesso.
Il membro della famiglia Volta era solito indire delle “riunioni intellettuali” in pieno spirito umanistico. Queste talvolta sfociavano nell’esoterico e nella trattazione di culti misterici, antichi e non. L’idea dell’iscrizione enigmatica, per l’appunto introdotta dal nome di Aelia Laelia Crispis, potrebbe esser stata partorita durante questi raduni. Dall’Achille Volta di metà Cinquecento passiamo ad un suo omonimo, vissuto un secolo dopo. Quest’ultimo, resosi conto di come la scritta fosse ormai illeggibile, volle una sua copia su una lastra di marmo rosso. La Pietra di Bologna che possiamo osservare oggi, all’interno di Palazzo Ghisilardi-Fava, è proprio quella placca marmorea.
E se oggi è il lapidario del Palazzo Ghisilardi-Fava ad ospitare la Pietra di Bologna e non il complesso di Casaralta lo si deve prima al bombardamento alleato del 1944, che distrusse in parte quest’ultimo e poi ai lavori di ristrutturazione terminati nel 1988, a seguito dei quali si decise il ricollocamento della lapide. Questi sono i fatti, adesso passiamo alle speculazioni. Il mondo dell’alchimia è molto affezionato all’iscrizione latina. Già nel XVI secolo la sua fama accrebbe a tal punto da attirare l’attenzione di molti studiosi. Uomini di scienza, umanisti, letterati, non pochi cercarono la chiave per aprire questa porta verso l’ignoto. Qualcuno osò addirittura sostenere come la soluzione all’enigma bolognese conducesse alla realizzazione della Pietra Filosofale.
A sostegno della tesi alchemica si presentarono diversi studiosi fino al XVIII secolo inoltrato. Solo per fare due nomi, si interessarono alla questione l’erudito, nonché eccezionale drammaturgo, Emanuele Tesauro (1592-1675) o ancora lo storiografo perugino Serafino Calindri (1733-1811). La maggior parte degli storici contemporanei concorda nell’inquadrare l’indovinello come un gioco umanistico, uno scherzo ben congeniato per far impazzire i posteri. Se così fosse, complimenti, è mezzo millennio che ci proviamo. In conclusione, vogliamo riportare per intero il testo tradotto dell’epigrafe, magari tra voi si nasconde colei o colui che troverà la soluzione al mistero.
«D.M. Aelia Laelia Crispis
né uomo, né donna, né androgino
né bambina, né giovane, né vecchia
né casta, né meretrice, né pudica
ma tutto questo insieme.
Uccisa né dalla fame, né dal ferro, né dal veleno,
ma da tutte queste cose insieme.
Né in cielo, né nell’acqua, né in terra,
ma ovunque giace,
Lucio Agatho Priscius
né marito, né amante, né parente,
né triste, né lieto, né piangente,
questa né mole, né piramide, né sepoltura,
ma tutto questo insieme
sa e non sa a chi è dedicato.»