Quello che viviamo oggi è frutto di anni e anni di tensioni ideologiche, politiche e religiose. Scavare in quel passato, analizzandolo in ogni suo aspetto, può essere d’aiuto per una comprensione generale di ciò che accade nell’immediato presente, seppur con le dovute e sacrosante accortezze. Il mio focus si concentrerà sulla Palestina Ottomana a cavallo dei secoli XIX e XX. Terra allora contraddistinta dalla “rinascita” culturale palestinese da un lato e, dall’altro, dalle prime ondate migratorie di matrice ebraico-sionista.
Alla fine dell’Ottocento e fino ai primordi del mandato britannico del 1920, in Palestina così come in tanti altri paesi arabi si riconobbe una generale fioritura culturale denotabile in ambito pubblico, sociale, politico e filosofico. Si parlò già all’epoca di Nahda (traducibile come “rinascita”, “risorgimento”). Il movimento cercò con estrema difficoltà di svestire i panni del Panislamismo o dell’Ottomanismo (fenomeni in voga soprattutto nella vicina area anatolica). La Nahda si impose nel Levante soprattutto per due motivi: in primis per manifestare un fervente nazionalismo palestinese; in secundis per controbattere all’emergente Sionismo, quest’ultimo aggressivo nelle sue rivendicazioni territoriali (la Palestina era vista come “una terra senza popolo per un popolo senza terra“). Come si può notare, i due punti sono collegati tra di loro in modo quasi indissolubile.
Abbiamo bisogno di un contesto però. La Palestina, già dalla prima metà del XIX secolo, poteva dirsi una regione in contraddizione rispetto a ciò che si pensava nei salotti europei. Certo, restava una provincia ottomana (salvo gli anni che vanno dal 1831 al 1840, contraddistinti dall’operato eversivo di Muhammad ʿAli Pascià) abbastanza periferica ma non per questo “desolata”, come la si voleva far apparire. Demograficamente parlando, si notò una crescita incoraggiante, assecondata da un sempre più autonomo atteggiamento diplomatico (che trovava ragion d’essere nel declino sultanale) e da un’intraprendenza decisionale per ciò che riguardava il flusso dei pellegrini verso la Terrasanta. In un certo senso la Palestina degli anni ’50 dell’Ottocento procedeva verso un lento sviluppo (ma comunque ravvisabile) sotto le insegne della modernizzazione e della stabilità.
Di demografia si è parlato, non a caso. A seguito della restaurazione ottomana del 1840, la Palestina Ottomana, forte della legislazione imperiale favorevole, divenne terra di approdo per molte persone di fede non musulmana. Essi potevano acquisire proprietà terriere ed essere liberi di usufruirne a proprio piacimento. D’altronde era quello il tempo delle Tanzimat, ovvero della norme volte a riorganizzare l’apparato statale turco. Le principali potenze europee ne approfittarono, creando dei generici exclavi in Palestina. Comunità cattoliche, protestanti, greco-ortodosse si stabilirono in loco, potendo costruire edifici di culto e infrastrutture funzionali come scuole e ospedali. E lo ripeto a scanso di equivoci, a prevederlo era la legge del sultano.
L’apertura al mondo esterno comportò una veloce amalgama di popoli, ma non solo. Si verificò al contempo un diminuire degli scontri tra capi tribù e una parziale cessazione delle incursioni beduine nei villaggi. Fino ad ora ho omesso un particolare, sul quale invece voglio battere avviandomi alla conclusione. A godere del miglioramento delle condizioni fu anche la componente ebraica sefardita e orientale (arabi-ebrei). Nel 1870, perciò prima delle ondate sioniste, essi rappresentavano poco meno dell’8% della popolazione autoctona (27.000 su 380.000 abitanti). Non vi era assolutamente alcun tipo di astio tra le diverse religioni perché non esisteva ideologia che lo permettesse. L’ossatura amministrativa ottomana in tal senso fu sempre garante della pace tra le mille anime che coesistevano all’ombra della Sublime Porta. Ed è anche interessante comprendere come gli ebrei locali accolsero i loro correligionari ashkenaziti a seguito delle Aliya.
Le Aliya furono le ondate migratorie che a partire dagli anni ’80 del XIX secolo condussero molti ebrei dell’Europa centro-orientale nella Palestina Ottomana. Inizialmente si trattò di ebrei rifugiati, i quali scappavano dai violenti pogrom russi o dalle crescenti discriminazioni europee. In seguito però giunsero coloro i quali prevedevano la costituzione di uno Stato d’Israele onnicomprensivo dei territori palestinesi. Questi non sempre furono ben graditi dai sefarditi locali (o anche dagli arabi cristiani, anch’essi una minoranza), che anzi in alcuni casi protestarono per la pressante e aggressiva volontà politica di stampo sionista. Là originò il dissenso e la discordia. Quella fu la miccia.
Le teorie di Theodor Herzl e Max Nordau, padri del Sionismo, cozzavano con la concezione di pacifica convivenza che gli Ottomani avevano imposto nell’area. Dopo il Congresso Sionista di Basilea del 1897 e la proclamazione dell’intento di garantire al popolo ebraico una patria universalmente e giuridicamente riconosciuta, nulla sarà più lo stesso. Che sia chiaro il messaggio: la Palestina Ottomana allora non era una terra vuota, non era una regione da “colonizzare”. Tutt’altro.