Ad oggi viviamo immersi nel mondo delle marche e dei grandi nomi. Lo stesso vale per l’arte. Spesso e volentieri sentiamo di opere vendute all’asta per milioni e milioni di euro. Questo perché viene riconosciuta universalmente l’importanza del pittore che ha firmato una determinata opera. Ma da quando si firma un’opera d’arte? E perché?
Al contrario di quanto si possa pensare, apporre la firma su una propria opera è un fenomeno abbastanza tardo. La firma è sinonimo di individualità, si pone il proprio nome vicino a quello della propria creatura. La si riconosce. Ma se pensiamo a come l’arte era tutelata fino a pochi secoli fa, ovvero tramite il mecenatismo, capiamo benissimo che era difficile riconoscersi a pieno nelle proprie opere.
Molti artisti, nel corso dei secoli, andavano via via soddisfacendo richieste fra le più svariate dei vari signori che li tutelavano e li pagavano. Non c’era libero sfogo alla creatività e non c’era soprattutto libertà di scelta. Si produceva ciò che era richiesto, al di fuori di qualsiasi volontà individuale dell’autore.
Solo nel XIX secolo, durante il Romanticismo, l’opera d’arte assume tutt’altro valore. Iniziano a vedersi le prime firme e inizia a mutare il concetto di arte stesso. Se prima il valore era intrinseco all’opera in sé, ora, volente o nolente, è legato indissolubilmente alla firma che essa porta.
Ciò era frutto, chiaramente, della mutata condizione degli artisti e della mutata percezione che della creatività si aveva. Non si produceva più su commissione, o almeno non solo in tale modo. La pittura diventa “da cavalletto“, si produce liberamente chiunque e qualunque cosa. Ciò che importa è che la finissima percezione artistica dell’autore trovi riscontro sulla tela, nient’altro.
In tale logica inizia a prendere sempre più importanza l’atelier di appartenenza di un’opera e la firma dell’autore. E, al contrario di quanto avviene oggi, più un autore produceva, più le sue opere valevano. L’arte diventa soggettiva, il suo valore immenso.