Spesso accade che gli scontri in estremo Oriente siano inquadrati nella grande contesa Giappone-USA, quando in realtà gli attori in gioco furono molteplici. L’intenzione odierna è quella di accendere una piccola luce su quanto poteva accadere in un campo di prigionia giapponese, uno dei tanti situati nel sud-est asiatico.
Lo faremo tenendo in considerazione i racconti verbali e fotografici di alcuni inglesi sopravvissuti a quelle esperienze a dir poco infernali. L’impero britannico possedeva colonie in Malesia, Singapore, Hong Kong e Birmania. Territori che, uno dopo l’altro, caddero sotto i colpi dell’esercito imperiale giapponese. Le centinaia di migliaia di soldati del Commonwealth che preferirono la resa alla morte, furono trattati come bestie.
Secondo il codice morale giapponese, la resa era estremamente più disonorevole della morte in battaglia. Non è un caso che Tokyo non avesse sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1929 riguardante i prigionieri di guerra. Partendo da tali presupposti, vi lasciamo immaginare in che condizioni versassero tutte quelle anime che finirono in un campo di prigionia nelle fitte giungle malesi o birmane.
Violenza inaudita, sperimentazioni mediche dal dubbio sviluppo etico, malattie, lavori forzati e fame, tanta fame. Questi fattori decretarono uno spaventoso tasso di mortalità del 30% nei campi giapponesi. Tra il 1941 e il 1942 i territori alleati (per lo più inglesi) caddero per mano del regime giapponese. Da quel momento iniziò il dislocamento di quasi 200.000 prigionieri di guerra. Per il trasporto furono utilizzate le cosiddette “navi infernali“. Stipati come il bestiame, in molti non raggiunsero le varie destinazioni, capitolando a causa di dissenteria, asfissia, malnutrizione e malattie infettive.
Al contrario, chi raggiungeva la meta prestabilita dai giapponesi, era obbligato a partecipare alla costruzione di ferrovie nel bel mezzo del nulla, in terreni accidentati, sperduti nella giungla. L’esempio lampante è il tratto ferroviario che collegava il Siam con la Birmania: la “ferrovia della morte“, conclusa addirittura prima del previsto, nel 1943. Ma l’unica cosa che contava era rispettare i tempi, non il costo in vite umane. Circa la metà di coloro che lavorarono (sotto costrizione) al progetto perì di stenti.
Alla fine, quando la guerra giunse a conclusione, i sopravvissuti tornarono nelle loro case ed ebbero modo di raccontare quanto successo. Le loro furono testimonianze dolorose, ma utili per la costruzione di un’articolata accusa contro gli alti vertici militari nipponici durante il processo di Tokyo nel ’46.