La striscia di terra parzialmente emersa che oggi collega India e Sri Lanka, comunemente nota come “Ponte di Adamo”, un tempo vedeva sorgere una florida cittadina di frontiera, un luogo di raccolta per pescatori locali, ma soprattutto un area di passaggio per la vicina città sacra di Rameswaram, meta di pellegrinaggio per gli induisti. Questo luogo, che sulle cartine geografiche realizzate dagli anni ’60 dello scorso secolo in poi non compare più, si chiama Dhanushkodi. Oggi voglio raccontarvi la sua curiosa storia.
Dhanushkodi in lingua Tamil significa letteralmente “Fine dell’Arco”. Il nome simboleggia la sua peculiare posizione geografica, terra (o per meglio dire, sabbia) di confine con la vecchia Ceylon, oggi Sri Lanka. Stando alla tradizione induista, fu lo stesso Rama (eroe indiano protagonista dell’epopea antologica Rāmāyaṇa) a costruire il ponte tra il subcontinente indiano e l’isola. Non è un caso se ancora oggi quella porzione geografica sia nota talvolta col nome di “Ram Setu“, ovvero “Ponte di Rama”.
Dove l’acqua segna l’intervallo tra gli isolotti e gli scogli, un tempo doveva trovarsi una striscia di terra ben delineata, attraversabile a piedi. Lo suggeriscono le fonti europee del XVI secolo, le quali attestano il passaggio sicuro tra Ceylon e il meridione indiano almeno fino al 1480 circa. Per i secoli a venire sull’area le fonti tacciono, al contrario la religione le ha donato grande rilievo. Il tempio di Kodhanda Ram Kovil, che si trova nella città di Dhanushkodi, segna il punto in cui i pellegrini devono bagnarsi nell’acqua dell’Oceano Indiano. Il rituale precede l’ingresso nella già citata Rameswaram.
Il precedente riferimento alle cartine geografiche non è casuale, si sarà intuito. Nel 1964 un ciclone spazza totalmente via la città, relegandola ad un lontano ricordo. Quel luogo transitorio ma non per questo meno affascinante, quella meta obbligata per i pellegrini di mezzo paese, smette di esistere da un momento all’altro. Venti a 280 km/h si abbattono sulla striscia di terra tra il 22 e il 23 dicembre 1964. La Natura ricorda all’uomo a chi appartenga il primato sul globo terracqueo. L’agglomerato urbano non può nulla contro le onde anomale alte fino a sette metri e mezzo. La catastrofe sul Ponte di Adamo si ripete, in tutta la sua eccezionale distruttività. Più di 2.000 persone periscono; un centinaio i dispersi.
La marea ricoprì interamente l’area per circa due giorni, prima di restituire al mondo terrestre una minima porzione di quella città. Il governo indiano dichiarò “inabitabile” Dhanushkodi e predispose la proibizione sull’eventuale ingresso in città. Il termine “fantasma” da allora è divenuto inseparabile compagno di Dhanushkodi. Nessuno pensò di ripopolare l’area; a ragion veduta dico io. Nel 2004 uno tsunami travolge di nuovo la zona, non prima di aver dato vita ad uno spettacolo senza precedenti: secondo testimonianze attendibili di pescatori locali, il mare si ritirò per circa 500 metri prima di sfogarsi violentemente sulla banchina; in quel momento i resti cittadini, sommersi per meno di mezzo secolo, rividero la luce. Fu solo per pochi secondi.
Se oggi voleste visitare il luogo, le sue rovine e il panorama tanto spettrale quanto esotico, potete farlo. Troverete in loco qualche pescatore, poche guide turistiche e niente più. Ecco cosa rimane di Dhanushkodi, la città ponte tra due stati, oggetto di contesa tra sacro e proibito.