Quando si parla di circoncisione si tende a cadere in un duplice errore: per la maggior parte delle persone è una pratica di carattere strettamente religioso, immutata nel tempo; non pochi credono sia un’esclusiva euroasiatica, correlata all’oriente antico e sopravvissuta in due delle tre religioni abramitiche: Ebraismo e Islam. Ma la storia della pratica è più vasta, sfaccettata e multipolare di come si possa pensare ad un primo approccio. Ragion per cui merita un approfondimento.
Partendo dall’ultimo equivoco presentato, è cosa buona e giusta sottolineare come l’operazione chirurgica che prevede la rimozione del prepuzio dal pene sia cosa nota fin dall’antichità anche in zone del mondo lontanissime da noi. Le civiltà precolombiane praticavano questa operazione, ma anche i popoli oceanici e gli Aborigeni d’Australia. Comunità umane millenarie che non ebbero mai contatti con Europa, Africa o la florida terra mesopotamica. Allo stesso tempo esistevano delle differenti “modalità d’esecuzione“. Ad esempio nell’Egitto del III millennio a.C. la circoncisione prevedeva la rimozione completa del prepuzio; nella Polinesia invece l’intervento recideva il frenulo, senza intaccare la copertura cutanea.
Invece, tornando alle già citate religioni del libro, l’Ebraismo ha mutato – secondo disposizioni esterne (leggasi Impero Romano del II secolo d.C.) – la propria concezione sulla pratica chirurgica programmata. Nello specifico, si può dire come esista un’operazione pre adrianea e post adrianea. L’imperatore Adriano vietò agli ebrei la circoncisione, ma prima d’allora essi tagliavano solo in parte la pelle. Dopo il decreto, per evitare il camuffamento e quindi la “scappatoia” ritenuta indegna secondo i precetti religiosi, gli ebrei iniziarono a recidere una porzione sensibilmente maggiore di cute.
Nell’antico Egitto cambiava ancora il concepimento della circoncisione. Mentre l’Ebraismo sanciva l’attuazione della pratica ai neonati dopo otto giorni dalla nascita, i sudditi del Faraone circoncidevano ragazzi che dalla pubertà transitavano verso l’età adulta. Lungo le sponde del Nilo la circoncisione non era solo un rito di passaggio, ma rappresentava la manifestazione diretta di uno specifico status. La pratica riguardava i più agiati, i ragazzi prossimi al sacerdozio e i detentori di una dignità nobiliare. Le sepolture a noi pervenute (famose sono quelle di Saqqara) riportano scene di circoncisione in virtù di questo ideale gerarchico-sociale.
Se si guarda più a sud, oltre la fascia sahariana, si possono evincere pratiche di circoncisione dal significato simile. Le etnie Bantu e Zulu procedevano con l’operazione solamente a seguito di un rituale che prevedeva lo spargimento della calce sul corpo dell’iniziato. Non solo, perché il complesso rituale obbligava i ragazzi prossimi all’età adulta all’isolamento. I contatti con l’elemento femminile erano proibiti. Una volta superata la pratica, l’adulto doveva abbandonare il prepuzio nella foresta. L’atto rafforzava la simbologia del passaggio tra le due età.
Oltre tutto è sbagliato immaginare la circoncisione come puro fenomeno religioso. Nell’oriente antico si eseguiva l’operazione chirurgica anche sui prigionieri di guerra, come forma lieve di tortura (senza scadere nell’atroce evirazione). Il prigioniero di guerra circonciso era equiparato ad uno schiavo. Greci e Romani in più di un’occasione provarono a vietare, se non addirittura estirpare, la pratica. Fallirono nel loro intento e la circoncisione rimase (e rimane) una ritualità cara all’Ebraismo, nonché alla componente musulmana, che dai primi riprende.