Chiunque sia stato a Mantova ha sentito parlare senz’altro della nobile famiglia dei Gonzaga. Prima Signori, poi Marchesi e infine Duchi, i Gonzaga hanno retto la piccola città padana dal basso Medioevo fino al XVIII secolo, imprimendo nell’aspetto della città un’inconfondibile firma. Soprattutto in età rinascimentale, infatti, i governatori di Mantova si sono adoperati per conferire al centro padano una veste degna del proprio prestigioso rango. Obiettivo, quest’ultimo, che sarebbe stato difficile raggiungere senza qualcuno che, invece, la propria firma ha voluto lasciarla di nascosto. Le strategie adottate nella “Camera degli Sposi” lasciano ancora oggi tutti a bocca aperta.
Uno stratagemma, forse, per iscrivere il proprio nome in eterno nelle menti dei posteri. Artefice di questo rompicapo è Andrea Mantegna, d’altronde non un pittore qualunque, ma il capostipite di quella “scuola mantovana” che ha codificato forme e figure chiave dell’arte rinascimentale… e non solo. Le strategie illusionistiche della sua “Camera degli Sposi“, sala interamente affrescata del Palazzo Ducale, anticipano di qualche decennio i canoni estetici di molta pittura manierista e barocca. Chissà, infatti, se Andrea del Pozzo e Pietro da Cortona hanno pensato al Mantegna quando a Roma, nel XVII secolo, hanno lacerato i soffitti della Chiesa di Sant’Ignazio di Loyola e di Palazzo Barberini…
Non c’è dubbio, d’altronde, che chi entra nella sala noti immediatamente lo squarcio di cielo sul soffitto. Vele e pennacchi dipinti simulano una volta con oculo aperto sull’azzurro sereno, dal quale si affacciano puttini alati. Il profilo dell’apertura spicca grazie agli ornati vegetali, mentre un finto vaso, collocato sul bordo dell’oculo, minaccia di cadere sullo spettatore con il naso all’insù. Il visitatore è posto di fronte all’avanguardia del canone della “meraviglia” barocca: quello che vede, però, è targato 1474.
Andrea Mantegna affresca l’intera sala in nove anni, dal 1465 al 1474. E’ nel pieno del Rinascimento, dunque, che Ludovico III Gonzaga convoca a palazzo il pittore, sicuramente onorato di dipingere per quel ducato affatto indifferente alle raffinatezze dell’arte. Le ragioni per abbellire Mantova di allegorie e ritratti autocelebrativi, d’altronde, non mancano: bisogna festeggiare la nomina a cardinale di Francesco, il figlio di Ludovico.
Ecco, infatti, che la scena centrale della parete Nord immortala l’incontro nel quale il segretario del Duca avvisa Ludovico dell’investitura di Francesco. Sulla parete ovest, invece, si sviluppa la scena del confronto diretto fra padre e figlio, contenti che per la famiglia Gonzaga si sia aperto il varco per il soglio pontificio. Un tono diverso appartiene al fitto apparato decorativo che circonda e sormonta queste scene di carattere istituzionale. In particolare, i finti rilievi con personaggi mitologici dialogano con i giochi prospettici della volta: il visitatore è chiamato ancora in causa.
E’ qui, al di sotto dei medaglioni che raffigurano le antiche autorità imperiali, che Mantegna lancia un’altra sfida allo spettatore. In una delle finte lesene, infatti, i motivi vegetali nascondono un volto dall’espressione seriosa e dalla fronte aggrottata. Fiero di aver giocato d’anticipo su chiunque altro, il pittore rivendica il proprio primato artistico con un misterioso autoritratto. L’effigie nascosta dal Mantenga nella Camera degli Sposi equivale, pertanto, alla firma che egli imprime in filigrana a un’intera città. D’altronde, non sono solo i Gonzaga a scrivere la storia del Ducato. L’artista – è evidente – sa che niente consegna il prestigio della città ai posteri così efficacemente come la sua straordinaria “Camera Picta”.