La Buona Ventura di Michelangelo Merisi, al secolo Caravaggio, è uno dei dipinti più iconici dell’eclettico artista. La storia dietro la realizzazione dell’opera è alquanto curiosa. Essa raggiunge un obiettivo forse prefissato dallo stesso pittore originario di Milano: quello di “umanizzare” i più umili, i meno rappresentati, coloro i quali vivono per vivere, privi d’ambizione universalistica eppure egualmente degni di esistere in una società tutt’altro che di facile comprensione. Insomma, tra il 1593 e il 1594 Caravaggio volle esprimere un parere sulla condizione del basso ceto. Lo fece a modo suo, rappresentando con eccezionale nitidezza una scena di vita quotidiana, pur non rinunciando al caro buon vecchio simbolismo.
Si è detto Buona Ventura, ma si dovrebbe parlare di Buone Venture! Esistono due versioni della tela; il perché è presto detto. Caravaggio realizzò un primo esemplare su commissione di Francesco Maria Del Monte, già meritevole della porpora cardinalizia, mecenate e protettore di Galileo Galilei – cosa non scontata all’epoca. Venuto meno il cardinale, l’opera ancora priva di un gemello finì nelle mani di un altro porporato, Pio di Savoia. Ereditato di generazione in generazione, grazie ad un donativo, nella metà del Settecento il dipinto sostò nella Pinacoteca dei Musei Capitolini. Una lunga sosta, che perdura ancora oggi.
La seconda versione vide la commissione di un altro uomo di chiesa, il vescovo di Alatri, poi vicegerente della diocesi di Roma, Alessandro Vittrici. Quest’ultima tela, per dinamiche che non ci è dato conoscere, fece prima parte della collezione pontificia di Innocenzo X, poi di quella di Camillo Pamphilj e infine, nel 1665, entrò tra le grazie del Re Sole Luigi XIV. A Parigi alcuni critici primo settecenteschi definirono l’opera “priva di spirito creativo”. Fortunatamente il pregiudizio non precluse la sopravvivenza della seconda tela, oggi esposta al Louvre.
Benché il quadro attesti chiaramente una duplice presenza, il soggetto principale è uno ed uno soltanto: la zingara. Quest’ultima, col pretesto di leggere la mano ad un giovane romano di buona famiglia, sfila lentamente l’anello del gentiluomo. Scena comune nella Roma del tempo, magistralmente riportata da Merisi senza risparmiarsi sulle sottigliezze psicologiche. Attorno lo sguardo della sgraziata gitana si edifica una narrativa a dir poco affascinante. La spregiudicatezza negli occhi di lei altera e confonde la percezione che lui ha del momento. Non che il giovane non sospetti nulla, tuttavia la spavalderia sopravanza la diffidenza e il furto del giorno avviene senza criticismi di alcun tipo.
Pur sempre di Caravaggio parliamo ed ecco che non può di certo mancare il classico riferimento al personaggio di matrice popolare. La zingarella che con quelle mani sfila il prezioso accessorio è sicura di sé, rivela la propria essenza quasi “esotica” (camicia ricamata e turbante accuratamente avvolto sul capo) e perciò irresistibile per un uomo il quale estro è pressoché nullo. Indizio esplicito di quella umiltà popolare di cui si diceva poco più sopra è la sporcizia sotto le unghie della girovaga. L’elemento è ricorrente nelle opere di Caravaggio.
Tradizione vuole che l’artista abbia utilizzato modelli veri per la realizzazione della Buona Ventura. Non appare insolita la decisione del Caravaggio di convincere una gitana di Roma a posare per lui. Così facendo il pennello milanese voleva dimostrare come si potesse dar vita ad un quadro di notevole fattura anche senza trarre ispirazione da soggetti alti, contraddicendo i precedenti maestri. Che dire poi della luce… Sebbene si tratti ancora del “periodo chiaro” di Caravaggio, la luminosità crea in ogni caso un’atmosfera teatrale, densa, animata. Le ombre contrastano un ocra caloroso, che funge da perfetto sfondo per una raffigurazione tanto simbolica quanto tangibile, verificabile, concreta in conclusione.